L'Onu ha pronta una lista di buone intenzioni, sostenibili ma inefficaci

Rosamaria Bitetti
Si misura lo sviluppo dimenticando la crescita, toh! Dopo più di tre anni di negoziazioni intergovernamentali è pronta la lista dei desideri delle Nazioni Unite che dovrebbe guidare le politiche mondiali per eradicare povertà e diseguaglianze, i Sustainable development goals (Sdg).

Dopo più di tre anni di negoziazioni intergovernamentali è pronta la lista dei desideri delle Nazioni Unite che dovrebbe guidare le politiche mondiali per eradicare povertà e diseguaglianze, i Sustainable development goals (Sdg). L’ultimo tassello è uscito la settimana scorsa, quando la commissione statistica e il gruppo di esperti delle Nazioni Unite (Iaeg-Sdgs) hanno approvato i 230 sottoindicatori che serviranno a monitorare 169 target facenti capo a 17 obiettivi di policy per lo sviluppo sostenibile. Eredi dei Millennium development goals (Mdg), gli Sdg hanno un approccio ancora più ambizioso e olistico, passando da 8 a 17 obiettivi, che includono oltre a tradizionali elementi della lotta alla povertà e aspirazioni ambientaliste, anche crescita economica e piena occupazione. Questi ultimi elementi sono una concessione alle critiche nella letteratura economica agli Mdg, in cui si riponeva molta enfasi sugli aiuti e poca sull’economia e l’imprenditorialità. A inizio trattative, i più importanti professori di Economia dello sviluppo, da Paul Collier a Dani Rodrik e molti altri, avevano lanciato un monito alle Nazioni Unite: non si pensi che ambizioni pur nobili quali assicurare cibo, salute ed educazione possano essere conseguite dall’alto e senza sviluppo economico. “C’è il rischio concreto che presentare gli Sdg come qualcosa che l’azione pubblica può realizzare direttamente trasformi le persone in passivi ricettori della generosità dei governi”. Ma migliori condizioni di lavoro, possibilità per i genitori di investire nell’educazione e nella salute dei bambini e delle bambine, la pressione per migliori istituzioni sono rese possibili in primo luogo dalla crescita economica. “Non sarà possibile ottenere questi obiettivi senza considerare che le persone sono generatori attivi della propria ricchezza, e saranno loro a sollevare se stessi dalla povertà”.

 


 


 

Quanto la versione finale di questi obiettivi sia in grado di orientare le politiche dei prossimi decenni, è quantomeno dubbio. L’Economist ha definito “peggio che inutili” questi “169 comandamenti”, e persino Papa Francesco, che di comandamenti sembra capirne molto di più che di economia dello sviluppo, ha osservato il rischio di accontentarsi dell’esercizio burocratico di scrittura di una lunga lista di buoni propositi. La scelta dei sottoindicatori per monitorare i 169 target purtroppo non è stata meno fumosa. Si poteva indicare una serie ampia di indicatori che coprisse ogni aspetto, o una lista ristretta, ma su cui c’è effettivamente una copertura in tutti i paesi e una metodologia consolidata. Anche in questo caso, si è scelto per fare una lista di desideri invece che scegliere strumenti utili per misurare e confrontare le politiche: circa metà dei 230 indicatori prescelti non copre tutte le nazioni né permette comparazione fra loro. Ovviamente, questi dati mancano esattamente in quei paesi in cui le politiche per eradicare la povertà sono più necessarie.

 

Secondo Mary Morgan, esperta di indicatori e povertà della London School of Economics, tale espansione di indicatori può avere un effetto positivo perché favorirebbe un approccio dal basso alla risoluzione di questi problemi: la dichiarazione di un obiettivo, infatti, attiva gruppi di interesse che possono chiederlo nell’arena politica, così come accadde quando si cominciò a indicare la diffusione dell’Aids come indicatore.

 

Questo ragionamento però presuppone che il problema da risolvere sia identificato correttamente, e non solo una presupposizione di élite piene di buone intenzioni. L’ABC dell’analisi delle politiche pubbliche è definire correttamente la baseline dei problemi: senza conoscerne esattamente le dimensioni, senza sapere se tendono ad aggravarsi o si stanno risolvendo, non si può misurare dov’è più efficace intervenire e se le politiche implementate servono veramente a mitigare un problema. Il rischio è che questa lunga lista di buone intenzioni non solo sia inutile, ma possa anche incentivare illusioni e richieste politiche perverse che rallenterebbero la crescita di quei paesi che ne hanno disperato bisogno.

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