Recep Tayyip Erdogan (foto LaPresse)

Decrittare Erdogan per capire cosa aspettarsi dalla Turchia

Carlo Panella
Storia del sultano di Ankara, dagli inizi moderati all’autoritarismo, tra trionfo dell’islam politico e società segrete. L’Ue, così come la cultura occidentale, non si è ancora resa conto del disastro che ha favorito, spingendo la Turchia a eliminare il ruolo sovraordinato della Forze armate turche rispetto alle istituzioni democratiche, a garanzia della laicità.

Tra cent’anni, gli storici avranno ampia scelta nel titolare il capitolo dei loro libri sul presidente ed ex premier turco Recep Tayyip Erdogan. Se vorranno un tono pop, scriveranno: “Eccellente calciatore, poteva diventare capitano del Galatasaray, ma un padre bigotto gli impedì di passare al professionismo”. Se inclineranno verso una tendenza alla Dan Brown, titoleranno: “Erdogan, maestro della confraternita sufi, lontana erede della setta degli Hashashin, sconfisse il partito dei generali e della massoneria”. Se saranno storici seri riveleranno: “L’Unione europea aiutò Erdogan nel distruggere lo stato laico di Kemal Atatürk, facendo trionfare l’islam politico”. Tutti e tre i titoli corrispondono alla biografia di questo leader neo ottomano, e il più scabroso è l’ultimo. Anche perché l’Ue, così come la cultura occidentale, non si è ancora resa conto del disastro che ha favorito, spingendo la Turchia a eliminare il ruolo sovraordinato della Forze armate turche rispetto alle istituzioni democratiche, a garanzia della laicità.

 

Tutta la biografia di Erdogan illustra questo assunto. Nato il 26 febbraio 1954 in una famiglia originaria di Trebisonda (o forse della Georgia) a Kasimpasa, vecchio quartiere di Istanbul che confina col Corno d’Oro, si trasferisce con la famiglia sino ai 13 anni a Rize sul mar Nero, a causa della professione del padre: guardia costiera. Ritornato a Istanbul, viene iscritto in un liceo religioso (Imam Hatip), scelta usuale per le famiglie turche tradizionaliste, che però non permette l’accesso agli studi superiori né alla Scuola superiore di amministrazione cui Tayyip ambisce. La prima passione del giovane Erdogan è il calcio, ma deve celarla al padre che la ostacola (nasconde persino le scarpette nel sacco del carbone). Quando decide di passare al professionismo, in vista di un eccellente ingaggio nelle seconda serie turca, il padre lo blocca e si concretizza la prima “sliding door” della sua vita.

 

Trova infatti un modesto impiego nella società di trasporti urbani di Istanbul – penetrando così nei meandri politici e amministrativi della municipalità più grande d’Europa (12 milioni di abitanti) – e si iscrive alla Federazione giovanile del Partito della salvezza nazionale (Msp), filiazione della Fratellanza musulmana diretta da Necmettin Erbakan, per poi passare al suo nuovo partito, Refah. In Turchia, però, prendere la tessera di un partito nella prospettiva di farvi carriera impone di muoversi anche su un livello “coperto” misterico. Per un islamista, l’obbligo è di iscriversi a un ramo della confraternita sufi Naqshbandiyya, ed Erdogan sceglie il ramo “Nur”, “Luce”, in cui militano sia il leader Erbakan sia il teologo Fethullah Gülen.

 

Una “copertura” indispensabile: nella confraternita e nei suoi misterici conciliaboli vengono prese le decisioni che contano. Specularmente, se Erdogan fosse stato un laico kemalista, la sua iscrizione al Partito popolare repubblicano (Chp) avrebbe comportato l’iscrizione alla massoneria, baricentro decisionale dei Giovani turchi, di Kemal Atatürk e – sino al governo Erdogan – del quartier generale delle Forze armate. Sono questi i pilastri su cui si basa quello “stato profondo” determinante nel processo decisionale e nella dinamica di potere in Turchia, nazione in cui una lettura complottistica dei fenomeni è lecita.
Avendo presente questo contesto, Kemal Atatürk, massone, affrontò nel 1921 la sfida con la modernità, impose uno schema istituzionale di esclusione dell’islam da qualsiasi agibilità politica e statuale, lo relegò alla sfera religiosa e mise a presidio di questa barriera laica il Consiglio supremo per la Sicurezza nazionale, in cui i generali turchi sono maggioranza e hanno potere di nomina di… se stessi e addirittura di dimissionamento di un governo che violi la laicità. Non solo, Atatürk tentò di minare alle radici la presa dell’islam: chiuse d’imperio le confraternite islamiche (che però si inabissarono ed elusero i divieti), ne sequestrò i beni, pose le moschee sotto il controllo del governo e cambiò l’alfabeto da arabo a latino: una specie di “genocidio culturale”. Erdogan ha sviluppato tutta la sua impetuosa carriera politica con l’obiettivo di eliminare questa tutela istituzionale dei generali sul potere esecutivo e di far trionfare l’islam politico in tutti gli spazi della società. Questa è la chiave della sua leadership, sviluppata con prudente gradualismo, e una forte predisposizione alla “dissimulazione”, tipica arma dell’islam politico.

 

La sua carriera pubblica inizia con la conquista della municipalità di Istanbul di cui è sindaco dal 27 marzo 1994 al 6 novembre 1998. Defilato in questo ruolo amministrativo, Erdogan assiste da una posizione protetta al declino del suo leader Erbakan, che pure aveva vinto le elezioni politiche del 1997 e che era stato nominato primo ministro, ma che viene dimesso d’autorità dai generali del Consiglio per aver violato la laicità dello stato. L’ennesimo “golpe bianco” dei generali turchi. Erdogan termina però la sindacatura di Istanbul con un arresto per “violazione della laicità e incitamento all’odio religioso”, per aver pronunciato durante un comizio questi versi del poeta Ziya Gökalp: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati…”. Nulla di eversivo, ma indicativo della volontà dei generali di non concedere il minimo spiraglio all’islam per entrare nella scena politica. Un indubbio sfregio alla libertà di pensiero, ma anche un argine al dilagare dell’islam politico.

 

Erdogan prende atto della condanna e ne trae prudenti conseguenze. Rompe con Erbakan e fonda il moderato Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), assieme all’ex sindaco di Ankara Abdullah Gül e al teologo Fethullah Gülen, leader della Fondazione Hizmet, che controlla migliaia di moschee nel mondo, molti network televisivi e giornali ed è ramificata ai vertici della magistratura e della polizia (Gülen parte subito per un libero esilio americano, per non essere arrestato dai generali).  L’Akp di Erdogan e Gül si presenta alle elezioni politiche del 2002 sfruttando tre clamorosi scenari. Innanzitutto la scomparsa dalla scena del Partito democratico (Dyp). Travolto dagli scandali finanziari, dalla corruzione e dallo scoppio della enorme bolla speculativa “delle piramidi”, il Dyp non passa la soglia di sbarramento con il 9,6 per cento. In secondo luogo una situazione economica fuori controllo, con l’inflazione al 73 per cento, che spinge l’elettorato alla ricerca di homines novi. Infine il meccanismo distorsivo indotto dallo sbarramento che la legge elettorale turca fissa al 10 per cento (per escludere la rappresentanza della minoranza curda, appunto il 10 per cento della popolazione), sorpassato dall’Akp con un 34,3 per cento che però gli assegna la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, perché deve condividerli con una sola altra forza politica, il laico Chp che si ferma al 19,38 per cento.

 

Questo primo trionfo di Erdogan è oscurato dall’umiliazione personale che gli viene inflitta dai generali: la sua elezione in Parlamento è annullata a causa della sentenza del 1998. Con spirito realpolitiker, il leader dell’Akp rispetta il verdetto (si farà eleggere in seguito in un turno suppletivo), nomina premier Abdüllah Gül e inaugura una fase di moderazione in politica estera e di straordinaria efficienza nella politica economica.  Nel 2003 Erdogan invia la flotta turca a difendere le coste di Israele da un eventuale attacco missilistico di Saddam Hussein (mossa incredibile con gli occhi di oggi) e assicura all’America l’uso delle basi turche per un contingente di 60 mila militari americani che invaderanno l’Iraq da nord. L’assicurazione però è vanificata in Parlamento dall’Akp, non è chiaro se con l’approvazione o no di Erdogan stesso. Il ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, intanto, condensa la nuova strategia di politica estera della Turchia nello slogan “Nessun problema con i vicini”, inclusi Cipro e la Grecia, nemici secolari. Quanto a Israele, durante i primi anni del governo Erdogan, continuano le manovre militari congiunte turco-israeliane, Ankara acquista carri armati israeliani e soprattutto firma un mega contratto per la fornitura a Israele di acqua potabile, via mare, per decine di milioni di dollari. Un prezioso aiuto strategico a Gerusalemme. Si consolida così la fama di Erdogan (che ha portato in tre anni l’inflazione turca dal 70 al 5 per cento) quale leader di un islam moderato.

 

[**Video_box_2**]Lo smantellamento del modello democratico
Erdogan, nel frattempo divenuto premier vincendo nel 2007 col 46,58 per cento le elezioni, avvia quel radicale ribaltamento del modello democratico turco che aveva dissimulato per anni. Incredibilmente è l’Unione europea a chiederglielo, perché per l’ingresso della Turchia in Europa è indispensabile che Ankara applichi i “parametri di Copenaghen”. Bruxelles chiede a Erdogan di eliminare i poteri sovraordinati al governo esercitati dai generali turchi attraverso il Consiglio per la Sicurezza nazionale: violano i princìpi definiti da Montesquieu, ma Montesquieu non pensava a una società islamica. L’Europa, senza neanche rendersene conto, concorre a eliminare il formidabile impedimento istituzionale all’esondare dell’islam politico in Turchia. Da parte loro, i generali del Consiglio si trovano con le spalle al muro di fronte alla spada dell’ingresso nell’Ue brandita da Erdogan.

 

Man mano che la Costituzione turca viene modificata, eliminando il potere politico dei militari a difesa della laicità dello stato, il vero Erdogan mostra il suo inedito, autoritario volto islamista. Nel 2008 inizia a smontare i rapporti di alleanza con Israele a seguito della guerra di Gaza. Continua nel 2010, sponsorizzando l’avventura della Freedom Flottilla che origina il disastroso incidente della Mavi Marmara. Rompe l’alleanza con Fethullah Gülen che critica le sue scelte anti israeliane e che via via si schiera tra la sua opposizione. Ma soprattutto – è il suo capolavoro machiavellico – a partire dal luglio del 2008 spinge la magistratura a incarcerare centinaia di generali e alti ufficiali delle Forze armate, accusandoli di avere complottato contro il governo nelle cospirazioni Ergenekon e Balyoz. Sostituiti con fedelissimi i vertici militari, stravinte le elezioni del 2011 col 49,83 per cento, forte di un incremento  del pil che supera il 10 per cento, Erdogan sviluppa sempre più chiaramente la visione autoritaria implicita nell’islam politico.

 

Con le “primavere arabe” del 2011 vede la possibilità di estendere l’egemonia della Turchia e sua personale al mondo arabo. In primis all’Egitto, in cui sposa il governo  dei Fratelli musulmani e Mohammed Morsi. Ma non controlla le dinamiche create dal collasso per spinte interne dei regimi arabi. Infine, è proprio lui a determinare una clamorosa spaccatura nel mondo sunnita, in cui un ampio fronte, che fa perno sull’Arabia Saudita, contrasta ad alzo zero quella Fratellanza musulmana di cui il presidente turco (passa a questa carica nel 2014) si sente leader morale mondiale. La rivoluzione popolare che scuote la Siria e che si trasforma in guerra civile lo spinge a ribaltare la strategia di Davutoglu (oggi suo premier) e a “rompere con tutti i suoi vicini”, inclusi la Russia e l’Iran, per abbattere il regime baathista di Bashar el Assad. Erdogan appoggia i ribelli anti Assad, li rifornisce d’armi, senza fare distinzione tra quelli che può controllare e quelli che poi confluiscono nello Stato islamico.

 


Con la rivolta di Gezi Park del 2013 i suoi tratti autoritario-islamisti si dispiegano in pieno: governa la Turchia con la repressione acuta delle piazze e delle opposizioni politiche e culturali, di cui fanno le spese soprattutto i giornalisti, arrestati a decine. Con Gezi Park, Erdogan rompe definitivamente con Fethullah Gülen, che si schiera con i manifestanti e che subito dopo è accusato – non a torto – di avere ispirato le inchieste per corruzione che toccano due ministri dell’esecutivo di Erdogan e persino i suoi figli. I magistrati che indagano vengono sostituiti, alcuni alti funzionari di polizia arrestati.

 

La politica curda
L’unica mossa lungimirante di Erdogan è una accorta politica nei confronti dei curdi. Il Kurdistan iracheno diventa di fatto uno stato satellite di Ankara e il suo presidente Massud Barzani un alleato. Ma la mossa più coraggiosa di Erdogan è l’accordo stipulato nel carcere dell’Isola di Imrali, tramite il suo fiduciario Hakan Fidan, capo dei servizi segreti (Mit), con Abdullah Oçalan, per una road map che chiuda la guerra civile turco-curda (35 mila morti). Ma la tregua proclamata nel 2014 non regge. Nelle elezioni del giugno 2015 Erdogan subisce un tracollo di voti e scende al 40,86 per cento. Soprattutto subisce il trionfo dell’Hdp del curdo Selahattin Demirtas, una geniale federazione politica che fa perno sui curdi e che aggrega verdi, ambientalisti intellettuali e persino il movimento gay. Con il 13,12 per cent,o Demirtas supera la soglia di sbarramento del 10 e la ripartizione dei seggi toglie a Erdogan la maggioranza in Parlamento. Il presidente deve, dovrebbe entrare in coalizione. Ma questo bloccherebbe la sua ultima aspirazione: modificare la Costituzione in senso presidenzialista. Per questo impedisce una soluzione di coalizione, convoca elezioni anticipate per il 1° novembre e gestisce la campagna elettorale con arresti, e pressioni sulla stampa, soprattutto facendo sì che l’Hdp non possa fare campagna elettorale. In questo contesto cadono gli attentati contro l’Hdp di Suruç, Duarbakir e Ankara.  E qui scatta il cortocircuito: una larga parte della Turchia lo accusa di esserne il mandante. Tesi insostenibile: è evidente che l’artefice è lo Stato islamico. Ma è un’infamia che Erdogan stesso si tira addosso a causa delle sue evidenti pratiche autoritarie. Il Pkk curdo riprende la guerra civile e così facendo favorisce Erdogan che non vede l’ora di presentarsi come unico baluardo per la sicurezza dei turchi e ne bombarda le basi in Iraq.

 

La spirale di violenza che ha epicentro nelle decisioni del neosultano è ormai indomabile: azioni e reazioni si susseguono senza che nessuno possa dare loro una direzione strategica. E’ il trionfo dell’islam politico. Sulle ceneri di una Turchia che fu democratica. Grazie ai generali.

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