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Life in plastic, it's fantastic

Alessandro Berrettoni

Una volta, qua era tutto un elogio del materiale artificiale più famoso del mondo. Da Roland Barthes a Gino Colombini, storia di un prodotto dell’ingegno umano, simbolo della nostra civiltà, che l’estremismo ambientalista vuole distruggere

Sono lontani i tempi in cui una delle hit nelle classifiche di tutto il mondo era “Barbie girl”. Erano gli anni ‘90 e “la vita di plastica era fantastica”. Adesso, l’ondata ambientalista ha ingaggiato una battaglia contro quello che per decenni è stato il materiale principe della nostra civiltà: la plastica non va più di moda. E’ una guerra, come ha annunciato il segretario di stato britannico all’ambiente Michael Gove. Senza sconti e totale. Eppure di plastica erano - e sono - la maggior parte dei beni di consumo con cui ogni giorno abbiamo a che fare. Barbie comprese. 

 

La guerra è stata confermata dall’Unione europea, che ha annunciato che tutta quella prodotta entro i confini continentali sarà riciclabile dal 2030. Eppure la notizia della morte della plastica appare fortemente esagerata. A sostenerlo è un editoriale del Financial Times, “In defense of plastics”, dove l’autrice, Penny Sparke, esamina il ruolo predominante del materiale nella storia della civiltà e del design. “La plastica potrà anche esser un nemico dell’ambiente, ma vale la pena ricordare che ci sono stati tempi in cui rappresentava uno degli emblemi positivi della nostra epoca”. E forse lo è ancora. 

 

“Se non sto prendendo un abbaglio, questa invenzione si rivelerà importante in futuro”. Così scriveva Leo Baekland, inventore della prima plastica totalmente sintetica, la bachelite. E aveva ragione, come racconta Tim Harford nel suo “50 cose che hanno fatto l’economia moderna”, pubblicato in Italia da Egea. La storia di Baekland in realtà non andò a finire benissimo. Nel 1939 aveva venduto la General Bakelite Company e si era ritirato a vita privata. Divenne un recluso, si nutriva soltanto di cibo in scatola ed era ossessionato dalla costruzione di un immenso giardino tropicale. Morì nel 1944 all’età di ottant’anni in seguito ad un’emorragia cerebrale. Ciò che era riuscito a creare però, con quell’alchimia che si crea quando genialità e sperimentazione riescono a fondersi, rimase e rimarrà. Non a caso quasi settant’anni dopo, nel 2011, Susan Freinkel pubblicò uno dei suoi studi più famosi: “Plastic: a toxic love story”. L’idea le balenò in mente quando decise di annotare tutti gli oggetti di poliuretano (o simili) che la circondavano. Né contò 196 in una giornata, su 298 totali.

 

Ora l’euforia è esaurita e tutti sono più o meno concordi sui rischi per l’ambiente. Realistici e considerevoli, certo, ma ambigui e non sempre accurati (uno degli studi più citati in merito sostiene che tutta la plastica presente nei mari sarà più pesante del totale dei pesci nel 2050, ma nessuno è mai riuscito a pesare né l’una né gli altri). La plastica presenta in realtà vantaggi sia economici che ambientali. Come scrive sempre Harford, “i veicoli con componenti plastiche sono più leggeri e usano meno carburante. Gli imballaggi mantengono fresco il cibo più a lungo. E poi, se tutte le bottiglie del mondo fossero di vetro, chi vorrebbe averle in frantumi nel parco giochi in cui porta il figlio?”.

 

Non c’è una data d’inizio, un punto in cui si può far partire la guerra alla plastica. La tesi più condivisa è che in gioco ci siano alcuni fattori come la crisi petrolifera degli anni ‘70, la nascita e la crescita del movimento ambientalista. Fino a quel punto, è stata protagonista e attrice principale dell’impennata dell’economia di consumo, riuscendo a rompere il monopolio dei materiali semi preziosi, come ambra, giada e avorio. La plastica già alla fine del diciannovesimo secolo ha svolto un ruolo di grande democratizzatrice di quei “brividi intimi” che si provano quando si indossano oggetti alla moda. Con il rafforzamento della produzione di massa e le nuove tecnologie, tutto è cambiato. Tanto da far dire a Roland Barthes che la plastica è “più che una sostanza, è l’idea stessa della sua infinita trasformazione”. La bachelite, ad esempio, ha reso possibili le prese elettriche per come le conosciamo, per poi diventare materiale d’elezione per radio, grammofoni e altri oggetti di arredamento, trasformati e diventati simboli dell’epoca moderna. “E’ l’ubiquità resa visibile; e proprio in questo è una materia miracolosa” - diceva ancora Barthes, convinto che “il miracolo è sempre una conversione brusca della natura. La plastica resta tutta impregnata in questa scossa: più che un oggetto essa è traccia di un movimento”.

 

E in effetti di movimento intorno a questo materiale miracoloso ne ha avuto tanto. Dagli anni ‘40 in poi le materie plastiche, ormai entrate nella quotidianità, hanno incontrato la cultura del design e, sostiene Penny Sparke, “gli ideali democratici alla base del movimento del ‘giusto design per chiunque’”. L’estro italiano è stato fondamentale per implementare questa volontà. Grazie a designer come Cesare Colombo, Vico Magistretti, Gino Colombini e un’azienda come Kartell, persino uno spremiagrumi o un cestino potevano diventare oggetti d’arte, “eleganti come sculture”, opere che si stagliano sui musei della modernità, le case e i bar di tendenza. E’ il punto più alto della storia della plastica, che la crisi degli anni ‘70 ha iniziato a incrinare. Benché resistente per definizione, è stato in quel periodo che i sintomi della malattia hanno iniziato a manifestarsi. La crisi petrolifera ha posto in dubbio l’economicità della plastica, che ha iniziato a diventare più costosa. L’aumento del prezzo, unito ad un problema di disponibilità, ha dato linfa al movimento ambientalista, che ha portato via la patina di democratizzazione e ogni possibile connessione con il design moderno.

 

Ma se la sua coolness si è dissolta, ancora non tutto è perduto. La plastica ancora oggi fa parte della nostre vite, più di quanto forse siamo disposti ad ammettere. Secondo i critici, il suo futuro è segnato, ma ci vorrà ancora tempo per vederla scomparire interamente. Tempo che potrebbe essere utilizzato per farci cambiare di nuovo idea. Prima, era un nostro alleato nella conquista della modernità, adesso è diventato il capro espiatorio verso cui sfogare i nostri sensi di colpa. Più che bandire la plastica, basterebbe trovare un compromesso, e farla funzionare sempre meglio in futuro. Semplicemente, ricordarci che “life, in plastic, it’s fantastic”.

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