Mario Draghi (foto LaPresse)

Cantiere Draghi

Renzo Rosati

Spinte rigoriste e frenate sul rischio dei bond. La Bce forza la mutazione bancaria insieme all’uscita dal Qe

Roma. La missione di disciplinare il sistema bancario europeo che Mario Draghi sembra essersi dato pare formalizzata dall’intervento di lunedì 20 all’Europarlamento. Certo, la Banca centrale europea riunisce già le due competenze, monetaria e Vigilanza, ed il suo presidente non si è auto-attribuito nessun nuovo potere. La Vigilanza sulle banche poi è formalmente separata (affidata alla francese Danièle Nouy), ma la muraglia non è insuperabile: per esempio la tedesca Sabine Lautenschläger è nel board della Bce – quello che prende le decisioni sul Qe – e contemporaneamente vice della Nouy nella Vigilanza.

 

Ed è proprio alla Lautenschläger e alla connazionale Elke König, presidente del Single resolution board, il meccanismo che si occupa delle crisi bancarie e del loro eventuale bail-in, che pare si debba l’ispirazione del paper della Bce che ha fatto molto rumore nelle ultime settimane, in quanto propone di “sollevare” i governi dalla garanzia sui conti correnti fino a 100 mila euro, e contingentare per alcuni giorni i prelievi dalle banche in fallimento. Benché risalga all’8 novembre e sia comunque da sottoporre eventualmente alle leggi dei singoli paesi, è noto tra gli addetti ai lavori che “le opinioni prima o poi diventano fatti”. E dopo l’altrettanto famoso addendum della Nouy sull’equiparazioni tra vecchi e futuri Non performing loans nei bilanci delle banche per pretendere dagli istituti capitalizzazioni aggiuntive, la sensazione è stata dello stringersi sul credito di una tenaglia temprata in acciaio tedesco. E questa è anche la lettura del Financial Times di ieri.

 

Draghi ha avuto il merito di sistematizzare le varie questioni – ci ha messo la faccia, come si dice –, e in realtà accanto all’acciaio germanico ha proposto anche una dose di flessibilità che tanto piace all’Italia. Ha infatti escluso, su un orizzonte ragionevolmente lungo, che “si possano mettere limiti ai titoli di stato nei portafogli delle banche”, attribuendo loro un fattore di rischio in ragione dell’indebitamento del paese emittente. Leggi, soprattutto, Italia. Draghi non ha voluto fare un favore all’indebitato Tesoro italiano, ma ha inquadrato la questione all’interno del mercato mondiale: “Non c’è consenso per un accordo globale, e se l’Ue decidesse di muoversi da sola le banche europee si troverebbero in condizioni di svantaggio competitivo”. E poiché le banche cinesi detengono gran parte dei T-Bond americani, quelle americane investono in obbligazioni pubbliche europee e dei paesi emergenti, quelle giapponesi hanno in portafoglio la quasi totalità del debito del loro paese, il capo dell’Eurotower è sembrato chiudere la strada ai falchi del nord. Ma contemporaneamente ha dato ragione ai rigoristi sugli altri due problemi – Npl passati e futuri e protezione dei depositi – definendoli “interconnessi”, e tuttavia anche qui collegandoli, come precondizione, all’approdo (chiesto da Italia e Francia) alla garanzia unica sui depositi prevista dall’Unione bancaria: “La riduzione dei rischi e la condivisione dei rischi vanno di pari passo”, afferma Draghi. “E’ un affare che deve essere risolto e richiede gli sforzi congiunti di banche, supervisori, legislatori e governi”. In una visione minimalista si può sospettare che il presidente della Bce abbia usato molta tattica, riconducendo le fughe in avanti e le resistenze contrarie.

 

Ma allargando la visuale e conoscendo il Draghi che ama stupire, si può meglio prevedere che, a due anni dalla scadenza del mandato e con la riduzione degli stimoli monetari messa sul binario voglia appunto impiegare il tempo a riformare il mercato bancario, che in Europa si muove in ordine sparso. Draghi non si è fatto per esempio sfuggire l’occasione di riconoscere che il rischio non è solo rappresentato dagli Npl che affliggono le banche italiane, ma anche dai titoli tossici e derivati specialità di quelle tedesche (un anno fa il Fondo monetario internazionale definì per questo la Deutsche Bank “il maggior rischio sistemico finanziario del mondo”). Così ha assicurato “che la Vigilanza vuole monitorare con significativa attenzione anche la presenza di questi asset nei bilanci bancari”. Naturalmente l’apertura di un ambizioso “cantiere Draghi” non elimina magicamente i rischi per le banche italiane, né quelli della presenza di titoli del Tesoro legati al debito record dell’Italia.

 

Il nostro paese non è afflitto solo dal sottodimensionamento degli istituti locali, come Mps e Carige, le cui crisi o vengono risolte con soldi dei contribuenti o con ricapitalizzazioni private in extremis. Benché proprio ieri il vicepresidente lettone della Commissione di Bruxelles Valdis Dombrovkis abbia riconosciuto che “le banche italiane migliorano, con 44 miliardi euro di Npl, il 13,5 per cento dello stock totale, che sta uscendo dal sistema”, il rapporto tra crediti deteriorati e crediti totali erogati – Npe ratio, non performing exposure – è ancora del 12 per cento, contro una media europea del 4-5, e peggiore performance prima di Grecia, Cipro, Portogallo e Slovenia. Mentre i titoli del debito (Btp e altro) sono solo per il 37 per cento (800 miliardi) nei portafogli di banche e fondi stranieri, poco meno della metà del periodo pre-crisi. E, in attesa della fine del Qe, ma soprattutto di capire se i populisti vanno al governo a Roma, le raccomandazioni sono di alleggerire o tenersi pronti. Di conseguenza si ingrossano gli acquisti di banche e assicurazioni italiane (le famiglie si tengono ancora alla larga), che oggi ne detengono oltre 350 miliardi. Tra chi dà tutta la colpa all’Europa e alle sue regole e chi invece punta l’indice sul debito e sul ritardo del processo di consolidamento delle banche italiane, Draghi ha indicato anche all’Italia una via. Non facile, ma magari l’unica.

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