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Ecco come il "landinismo" ha demolito la Fiom nel suo feudo

Alberto Brambilla

I metalmeccanici "rossi" perdono la supremazia alla G.d di Bologna a vantaggio della più radicale Usb. Lezioni dal populismo

Roma. Il sindacato dei metalmeccanici Fiom ha subìto una clamorosa sconfitta in una grande fabbrica di Bologna sua roccaforte storica, la G.d del gruppo Coesia, multinazionale leader mondiale nella produzione di macchine per il confezionamento del tabacco. E’ la manifestazione di una crisi di consenso per la sigla guidata negli ultimi sette anni da Maurizio Landini, ora segretario confederale Cgil. Giovedì per la prima volta la Fiom ha perso il primato nell’organismo di rappresentanza dei lavoratori (Rsu) superata dall’Unione sindacale di base (Usb), una sigla indipendente e più radicale nelle rivendicazioni, che non era mai stata presente nell’organismo di G.d. La Usb ha ottenuto 80 voti in più della Fiom (547 contro 467) relegandola al secondo posto. Nel complesso la Fiom ha ottenuto 300 voti in meno rispetto alla consultazione di cinque anni fa, all’ultimo rinnovo, e risulta ridimensionata nella fabbrica dove prima spadroneggiava.

L’Usb è riuscita a realizzare il “ribaltone”, come l’hanno definito i giornali bolognesi, facendo campagna tra i lavoratori delusi dall’antecedente approvazione di un nuovo contratto integrativo che, messo ai voti, aveva ottenuto una maggioranza risicata tra i 1.800 dipendenti. L’accordo era stato firmato dalla Fiom e dalle altre due sigle di categoria Uilm e Cisl ma è passato soltanto per 27 voti, con il 50,2 per cento. “Un malessere che non avevamo previsto”, commentavano i rappresentanti sindacali. E soprattutto un’avvisaglia per la Fiom dal momento che nel 2012 l’integrativo passò con il 94 per cento dei consensi grazie al suo appoggio.

G.d è una fabbrica modello per trattamento degli addetti, relazioni industriali e performance aziendale: fatturato consolidato di 718 milioni di euro, è presente in 110 paesi e durante la crisi non ha mai chiesto un’ora di cassa integrazione. Fondata nel 1923 dalla famiglia Seragnoli, dal Dopoguerra ha intrapreso la produzione pionieristica di macchine automatiche segnando una tendenza per la provincia emiliana, ora territorio d’elezione per le aziende di confezionamento e imballaggio, ribattezzata dal Sole 24 Ore “Packaging Valley”.

L’accordo sindacale proseguiva nell’innovazione senza nulla togliere ai lavoratori: progetti di formazione in azienda; consultazione azienda-sindacati sulle trasformazioni tecnologiche introdotte; premi di risultato in aumento da 2.900 a 3.100 euro dal 2018 al 2021; e la possibilità per i dipendenti di decidere come organizzare durante la settimana le otto ore di lavoro giornaliere. “Una sperimentazione che mette il concetto di flessibilità al servizio della conciliazione e dell’equilibrio tra vita lavorativa e privata”, scrivevano i sindacati, compresa la Fiom, che invece con Landini ha da sempre considerato “flessibilità” un sinonimo di “precarietà”.

La Usb guidata da Sergio Bellavita, ex Fiom uscito in polemica con Landini, ha approfittato della contraddizione e guadagnato consensi attingendo alla retorica “landinana” contestando la genesi “anti democratica” dell’accordo – sottoposto ai lavoratori solo il giorno dell’assemblea – e il nuovo approccio agli orari flessibili che non garantiscono gli straordinari. “E’ indicativo della valanga del populismo sindacale”, dice Giuliano Cazzola, ex sindacalista della Cgil e poi deputato del centrodestra. “Chi lo insegue – magari con più rigore e competenza dei demagoghi – prima o poi finisce per esserne travolto dove meno se lo aspetta. L’exploit della Usb ricorda, sul piano politico, quello del M5s”.

La Fiom ora guidata da Francesca Re David sta soffrendo in altre fabbriche. Alla Marcegaglia di Ravenna ha dimezzato i consensi. All’Ilva di Taranto è diventata la quarta sigla per numero di iscritti. Superata, in entrambi i casi, da Usb che sta diventando punto di riferimento di un approccio antagonistico che è stato il marchio di fabbrica del “landinismo”.

Alberto Brambilla

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