Perché il popolo del risparmio tradito è fin troppo sopravvalutato

Stefano Cingolani

Nelle aree interessate da fallimenti bancari eclatanti, come il nord-est e la Toscana di Mps, famiglie e imprese se la cavano bene

C’è una figura socio-economica diventata già da tempo protagonista assoluta dei talk-show televisivi, dei giornali nazionali come di quelli locali, che adesso emerge prepotente anche dai lavori della commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche: è l’ignaro risparmiatore, imbrogliato, truffato, spogliato dei sudati risparmi da una cricca di banchieri gangster sui quali avevano quanto meno chiuso occhi, orecchie e bocca le scimmiette della Banca d’Italia e della Consob. Non si tratta di un soggetto marginale, secondo i narratori dell’ultima leggenda populista. Gli ignari risparmiatori ammontano almeno a 350 mila per lo più concentrati in Veneto e Toscana (con qualche coda non irrilevante in altre zone del centro Italia). Il Movimento 5 stelle sostiene che con le due banche venete fallite e poi salvate, “210 mila risparmiatori hanno perso in tutto o in parte i loro soldi messi da parte per i loro figli”. Adusbef e Federconsumatori parlano di 133 mila azionisti (60 mila di Banca Etruria, 44 mila di Banca Marche, 22 mila quelli di CariFerrara, 6.000 di CariChieti) e 20 mila detentori di obbligazioni delle quattro banche del centro Italia, che hanno perso tutto. Fidiamoci di questi conti anche se, chissà com’è, a fine 2016 erano meno di 14 mila le richieste di rimborso forfettario pari all’80 per cento per chi ha meno di 35 mila euro l’anno o un deposito sotto i centomila euro. Quanto al Montepaschi, sappiamo bene che stava arrivando l’apocalisse per 5 milioni di clienti prima che Pantalone pagasse per tutti e nazionalizzasse la banca.

 

Queste macrocifre aprono la porta ad alcuni interrogativi. Se 350 mila e più famiglie hanno subìto un tale salasso, gli effetti sul prodotto lordo sui consumi, sul potere d’acquisto, sui depositi bancari, sui risparmi, sulla ricchezza, insomma su tutti gli indicatori fondamentali debbono essere significativi, soprattutto nelle aree più colpite. E’ così?

 

Apriamo i rapporti dell’Istat, della Banca d’Italia e di Unioncamere e incontriamo subito alcune sorprese. Tra il 2011 e il 2015, gli anni duri della seconda recessione innescata dalla crisi del debito sovrano, il Veneto e la Toscana risultano tra le regioni che se la sono cavata meglio. Non solo: hanno aumentato sia il prodotto lordo sia i consumi pro capite. Secondo l’Istat, il prodotto lordo per abitante del Veneto era nel 2015 pari a 30,8 mila euro, superiore a quello del 2011; per la Toscana siamo a 29,4, anch’esso in aumento rispetto a quattro anni prima. La media italiana è 27 mila in leggera discesa. Hanno perso colpi e denari il Lazio, le Marche, l’Umbria, le regioni meridionali, s’è fermata persino la Lombardia. I consumi delle famiglie hanno un andamento molto simile. Vicenza, Siena e Arezzo sono le province irrorate dai crediti delle maggiori banche fallite, là dove i crediti deteriorati sono aumentati in modo esponenziale dopo il 2011. Eppure, anche qui tutte le lancette del benessere sono rivolte all’insù.

  

Il Sole 24 Ore ha elaborato otto indicatori per le 103 province italiane. Fatta 100 la media italiana, Siena è a quota 168,2, e si colloca al quarto posto subito dopo Firenze; Arezzo è a 134; Vicenza a quota 109,5. Arezzo e Siena spiccano per quantità di depositi bancari e sono le province in cima alle spese per auto, moto, elettronica, beni di consumo durevoli. Un vero e proprio boom per suv e auto di lusso si registra a Vicenza (più 30 per cento l’anno scorso) superando le altre province venete che pure s’attestano attorno a un incremento del 28-29 per cento.

 

Un segnale inequivocabile di ripresa, in una regione che ha resistito meglio alla grande crisi, secondo i dati di Eurostat, seguita immediatamente dalla Toscana. L’indagine parte dal 2008 e fino al 2014, quando comincia la ripresa (sia pure ancora in sordina) un cittadino veneto ha perso 600 euro, un toscano ancora meno, appena cento. Il Veneto si è confermato anche negli anni più bui della recessione come uno dei motori della economia italiana. Nel 2016 i depositi bancari detenuti dalle famiglie venete sono ulteriormente aumentati, informa la Banca d’Italia, favoriti dalla preferenza per investimenti a basso rischio e prontamente liquidabili; il valore delle attività finanziarie in deposito presso il sistema bancario ha registrato una diminuzione su cui ha inciso il deprezzamento, quasi integrale, del valore delle azioni delle due banche venete. Alla fine del 2014 la ricchezza netta pro capite delle famiglie ammontava a 168.400 euro, circa l’8 per cento in più del corrispondente valore nazionale. 

 

Nel 2015 le famiglie venete indebitate erano circa il 28 per cento del totale ed erano in calo i nuclei famigliari che pagavano in ritardo le rate. Alla fine del 2016 lo stock di prestiti bancari deteriorati al lordo delle rettifiche si è attestato al 20,9 per cento dei prestiti complessivi, quasi tre punti percentuali sopra la media nazionale. L’incidenza dei deteriorati è pari al 12 per cento per le famiglie e al 29 per cento per le imprese, ma il dato è gonfiato dalle costruzioni, perché il resto della piccola industria si colloca sotto la media. E il deserto industriale che ci viene ogni giorno raccontato? Dal 2010 al 2015 secondo Unioncamere, il numero di imprese è cresciuto di oltre tremila unità, ma non ha compensato il calo di quasi seimila nel biennio 2012-13. Tuttavia, questo è l’effetto di un “progressivo spostamento da forme giuridiche più semplici e sottocapitalizzate verso forme più strutturate”. Sono aumentate le società di capitali e si sono ridotte le imprese individuali; dunque, siamo in presenza di concentrazione e modernizzazione. Lo si vede anche dal boom delle esportazioni: dal 2010 le vendite all’estero hanno registrato un’espansione superiore alla domanda potenziale, oltre che al commercio mondiale. E si sono dirette più fuori che dentro l’area euro, come mostrano le indagini di Bankitalia. Il saldo della bilancia commerciale già nel 2015 ha superato i 15,6 miliardi di euro, il miglior riscontro degli ultimi dieci anni nonché il terzo miglior contributo al saldo nazionale, dopo Emilia Romagna e Piemonte. Diventa il secondo se prendiamo anziché la quantità il valore delle esportazioni. Ciò vuol dire che le aziende si sono spostate su una fascia di prodotti più ricca. Il tasso di attività 2008-2015 è rimasto stabile oltre il 68 per cento, la disoccupazione invece è salita dal 3,4 al 6,8 per cento. Il primo dato è sopra la media nazionale il secondo ampiamente sotto. I veneti, con un reddito disponibile di 19.357 l’anno, sono i più ricchi tra gli italiani (17.800 euro) e consumano di più. L’indice di povertà è rimasto stabile attorno al 4,5 per cento in linea con Lombardia ed Emilia. In Italia è il 10,3 per cento trascinato da sud e isole (21,1 per cento).

 

Anche in Toscana la quota dei nuclei famigliari vulnerabili è cresciuta solo lievemente rispetto a prima della crisi, portandosi all’1,6 per cento. Il reddito pro capite ammonta a 19.400 euro annui ed è in sostanza allineato con quello del Veneto. La ricchezza netta pro capite delle famiglie (circa 180.000 euro) è superiore del 14 per cento rispetto all’analogo dato nazionale. Per due terzi è composta da abitazioni. L’indice di Gini del reddito equivalente (una misura di diseguaglianza che varia da un livello minimo di 0 a uno massimo di 100) è risultato pari a 28,5 (31,3 nel centro e 31,8 in Italia). Nel 2015 la quota di famiglie toscane in povertà assoluta si è ridotta rispetto al 2014, al 3,0 per cento, nella media italiana è invece cresciuta al 6,1. Una famiglia su cinque è indebitata con mutuo o credito al consumo, una quota in calo rispetto al 2007 e allineata alla media italiana e il peso sul reddito è inferiore grazie al calo dei tassi d’interesse. Dunque, nessun impoverimento né assoluto né relativo. La recessione ha ridotto il prodotto lordo e i redditi, ma anche la Toscana è uscita dal tunnel nonostante le esportazioni non vadano così bene come in Veneto, soprattutto per colpa dei due principali settori nei quali si è specializzata la regione: moda e meccanica. Nel 2016 le vendite del sistema della moda sono arretrate di un punto percentuale, per colpa della pelletteria. Ma è anche vero che nei sei anni precedenti, quelli della lunga recessione, c’è stata una crescita molto sostenuta e senza interruzioni. La disoccupazione resta un punto debole anche rispetto al Veneto: era al 6 per cento nel 2008 ed è salita al 10 per cento nel 2016. Anche se quella di lunga durata è solo al 4,8 per cento e il tasso di occupazione al 65,3 è superiore alla media nazionale.

 

In barba al grande crac delle banche toscane, nel 2016 si è intensificata la crescita del risparmio finanziario detenuto da imprese e famiglie: nel dicembre scorso i depositi bancari erano cresciuti del 6,0 per cento, un tasso quasi doppio rispetto a quello di dodici mesi prima. Colpisce, nella selva di dati, il flusso di investimenti diretti all’estero. Nel 2015, ultimo anno disponibile, è stato positivo per 641 milioni di euro, raggiungendo una consistenza pari al 7,5 per cento del pil regionale che ammonta a poco più di cento miliardi di euro. Un quarto di questo flusso è diretto in Lussemburgo, per la presenza di holding localizzate nel granducato principalmente per motivi fiscali, segnala la Banca d’Italia. I capitali escono, dopo aver ripagato i debiti contratti con il Montepaschi o la Banca dell’Etruria, naturalmente. Ma questo è materia per un sequel: la leggenda dell’ignaro risparmiatore, parte seconda.

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