Una manifestazione anti-Trump (Foto Richard Ha via Flickr)

Un pezzo grosso della Bce spiega la ricetta dell'Ue per sfidare il trumpismo economico

Benoît Cœuré*

In un intervento pubblicato sul quotidiano tedesco Börsen-Zeitung, Benoît Cœuré, membro del comitato esecutivo della Banca centrale analizza come l'Europa può sfruttare il momento nero del populismo 

La globalizzazione e la cooperazione internazionale hanno affrontato una sfida importante lo scorso anno: l’Unione europea e le sue quattro libertà sono state messe in discussione. Da allora, la crescita più elevata, la disoccupazione in discesa e le migliori prospettive economiche hanno contribuito sensibilmente a migliorare gli atteggiamenti verso l’Unione. Secondo l’ultimo Eurobarometro, per esempio, più di due europei su tre si considerano come cittadini dell’Unione, il livello più alto mai registrato. Anche il sostegno all’euro ha raggiunto un livello record, e un numero crescente di europei si dichiara ottimista sul futuro dell’Unione. Questo cambiamento di opinione è evidente anche nei risultati elettorali: durante gli ultimi mesi, in molti stati membri le forze anti europee hanno subito cocenti sconfitte e un nuovo sentimento di unità e fiducia sembra farsi strada in tutto il continente grazie al comune impegno per la democrazia e per una società aperta e libera. Una nuova iniziativa francotedesca sta alimentando la speranza che il progetto europeo, dopo anni di stagnazione, possa compiere progressi tangibili. Dovremmo e dobbiamo usare questo momento per aiutare l’Europa a compiere ulteriori progressi. Se non lo facciamo, la coesione economica e sociale europea potrebbe prima o poi tornare a rischio. E’ il momento per l’Europa di cogliere questa opportunità favorevole e trasformarla nel “momento europeo”. La ragione per agire è evidente: nonostante il cambiamento promettente dell’atteggiamento nei suoi confronti, le paure verso l’economia aperta e l’Unione europea non sono certamente scomparse. L’Unione europea può dare una risposta alle paure dei propri cittadini a condizione che i decisori siano disposti a trarre le giuste conclusioni dalla crisi. Tre preoccupazioni principali inquietano le persone rispetto alla globalizzazione e al mercato aperto.

 

 

La prima ha a che fare con la stabilità: la globalizzazione ha reso i paesi più vulnerabili a spillover e crisi finanziarie internazionali. Dalla fine della seconda guerra mondiale fino al 1980 circa l’1 per cento dei paesi di tutto il mondo, in media, aveva subito una crisi bancaria. Dal 1980 al 2008 la cifra è aumentata e ha raggiunto il 20 per cento. La seconda preoccupazione riguarda la correttezza. Tutti i paesi giocano secondo le stesse regole applicando gli stessi standard oppure no? Questa preoccupazione è evidente in tutto il mondo ad esempio in relazione al dumping. Dubbi sono sorti in Europa anche riguardo la libera circolazione del lavoro. La terza preoccupazione è se la società sia giusta. Molte persone pensano che i mercati aperti abbiano favorito i capitalisti e i ricchi a spese dei lavoratori e dei poveri. E infatti, come ha mostrato l’Ocse, negli ultimi venti anni la quota salariale nei paesi ricchi è aumentata del 20 per cento per l’1 per cento dei redditi più alti, ma è diminuita per il restante 99 per cento dei lavoratori. Naturalmente, alcune di queste preoccupazioni si basano più sulle percezioni che sui fatti. La maggiore sensibilità agli shock finanziari o l’allargamento dei divari di reddito, ad esempio, potrebbe essere attribuita a un certo numero di altri fattori, come il cambiamento tecnologico. Ma un numero crescente di studi empirici suggerisce che la globalizzazione probabilmente ha rafforzato alcune delle tendenze secolari che hanno contribuito a legare, nella percezione delle persone, l’integrazione economica con il crescente scetticismo e, a volte, l'ansia.

 

Ci sono due modi per reagire a queste sfide: ritirarsi all'interno delle frontiere nazionali o spingere per una soluzione multinazionale. La prima opzione è destinata a fallire per due motivi. In primo luogo, priva le persone dei vantaggi economici indiscussi portati dal commercio e dall'integrazione. In secondo luogo, la globalizzazione porta alcuni paesi, per quanto possano isolarsi, ad avere meno strumenti politici per poter reagire alle sue sfide. La globalizzazione causa, ad esempio, controversie tra le giurisdizioni, e rende anche più difficile regolare e vigilare sui mercati finanziari per evitare che le crisi si ripetano. E poiché rende la base imponibile più difficile da individuare, indebolisce la capacità dei governi di reperire i fondi necessari per sostenere i redditi e ricollocare le persone che hanno perso il lavoro a causa della concorrenza globale. Rispetto a questi problemi però, l’Unione europea, un microcosmo di globalizzazione, può offrire una soluzione per contrastare le paure e le preoccupazioni delle persone. Questa è la seconda opzione. L'Unione europea può restituire il controllo della globalizzazione, assicurando che le politiche corrispondano meglio alle frontiere economiche. L’Unione garantisce ai suoi stati membri una piattaforma unica per recuperare alcune delle funzioni statali smantellate dalla globalizzazione.

 

Si prendano come esempio le preoccupazioni per la stabilità. Sebbene l’Unione europea, in particolare l’eurozona, sia stata colpita da una grande crisi finanziaria, la sua risposta è stata quella di istituire nuove e migliori istituzioni per il mercato europeo, in particolare attraverso l’unione bancaria. Grazie alla migliore definizione dei nostri confini politici ed economici è stato possibile invertire la frammentazione e proteggere i contribuenti. La società giusta e gli effetti di distribuzione di un mercato aperto rappresentano soprattutto un problema che va affrontato dai sistemi sociali nazionali. Ma l’Unione europea può svolgere un ruolo anche in questo contesto. Visto che nessuna grande società – nemmeno un gigante come Apple – può minacciare di voltare completamente le spalle al mercato più grande del mondo, la Commissione sta già predisponendo strumenti concorrenziali per contrastare, ad esempio, i montaggi fiscali delle multinazionali. Con la proposta di un’imposizione fiscale comune, l’evasione mediante il trasferimento dei profitti all’interno dell'Europa può essere eliminata. In altre parole, con tutti i suoi difetti, l’Unione europea è un reale vantaggio per i suoi Stati membri in un mondo globalizzato. Rappresenta il modello più sviluppato che abbiamo per affrontare i dubbi delle persone sui mercati aperti e sulla concorrenza, dubbi che i paesi da soli non possono dissipare. In futuro, ciò significa due cose. Innanzitutto, dobbiamo rivedere costantemente l’idoneità delle nostre istituzioni per affrontare le nuove sfide comuni e globali. Nonostante il progresso lodevole, i quadri economici, sociali e giuridici delle famiglie e delle imprese in tutti gli Stati membri possono essere notevolmente migliorati. Non dobbiamo pensare erroneamente che l’attuale ripresa guarirà tutte le ferite. Se le nostre istituzioni saranno adatte alle sfide future, aiuteremo gli stati membri a rendere la ripresa più forte, sfruttando i loro vantaggi comparativi, aumentando la loro resistenza agli shock e consentendo loro di massimizzare la crescita attraverso il mercato unico. In secondo luogo, non dobbiamo più aspettare, come accaduto con l’unione bancaria, ad avviare un dibattito su maggiore integrazione e nuove istituzioni. Occorre innanzitutto proteggere l’integrità dell’Unione e dell’eurozona in particolare. Per ottenere migliori risultati e affrontare sfide comuni e globali, è necessario compiere progressi su due fronti: un impegno a rafforzare le istituzioni esistenti e una visione chiara per un’ulteriore integrazione. In tal modo manterremo la promessa che abbiamo fatto quando l’Unione è stata fondata: maggiore prosperità e maggiori opportunità. E’ incoraggiante vedere i leader europei affrontare gradualmente questi problemi urgenti. La discussione deve ora portare a risultati concreti in modo che questo possa davvero essere il momento dell’Europa.

 

*membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea. Estratto di un intervento pubblicato il 14 settembre sul quotidiano tedesco Börsen-Zeitung 

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