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Cresciamo, ma sempre troppo poco

Carlo Cottarelli

Occhio a facili entusiasmi. I numeri dicono che la ripresa è ancora lunga

Diversi commentatori delle vicende economiche italiane hanno di recente sottolineato, anche su questo giornale, che la ripresa economica attualmente in corso in Italia dimostra che le fragilità della nostra economia sono ormai superate (non cito esplicitamente nessuno per non personalizzare una questione che va trattata guardando ai numeri e non facendo polemiche). Ora, la ripresa economica è chiara e va oltre le previsioni del governo e, soprattutto, delle organizzazioni internazionali. Pensate che nell’aggiornamento del World Economic Outlook (Weo) fatto a gennaio di quest’anno lo staff del Fondo monetario internazionale prevedeva una crescita dello 0,7 per cento del pil per il 2017. A luglio il Fondo ha rivisto questa previsione all’1,3 per cento. Vedremo se ci saranno nuove revisioni nel Weo che verrà pubblicato in ottobre, ma i dati trimestrali e gli indicatori disponibili per il terzo trimestre suggeriscono che il Pil quest’anno potrebbe crescere di almeno l’1,5 per cento. 

 

Sappiamo anche che l’occupazione è risalita al livello del 2008, che le esportazioni sono in forte aumento e che il turismo sta andando bene.

 

Non possiamo che essere contenti di questo risultato, ma, come sottolineato anche dal premier Gentiloni nel suo recente intervento alla Fiera del Levante, “le difficoltà non sono certo alle nostre spalle” (si veda questo link). Ha perfettamente ragione. Restano ancora notevoli difficoltà e fragilità che sono mascherate o, almeno, attenuate dalla favorevole congiuntura europea e internazionale.

 

L’attuale situazione italiana può essere paragonata a quella di un ciclista che, dopo aver superato con grande fatica e difficoltà il passo del Pordoi, inizia la discesa verso Arabba (sono stato di recente in vacanza in quella zona…). Il ciclista fa meno fatica e si compiace della velocità a cui sta andando. Dopo un po’ però gli viene comunicato dall’auto ammiraglia della sua squadra che il distacco dal gruppo, che per tutta la salita verso il Pordoi, era aumentato, continua a crescere, anche in discesa. Non cresce così rapidamente come in salita, ma il distacco continua ad aumentare. Questo è proprio quello che sta succedendo all’economia italiana. Il nostro pil cresce più rapidamente che in passato ma continua a crescere meno che negli altri paesi dell’area euro, anche se in discesa ce la caviamo un po’ meglio che in salita. Lasciamo le metafore e guardiamo a qualche numero.

 

Dal 2000 al 2016 l’Italia è sempre cresciuta, anno dopo anno, meno del resto dell’area dell’euro. Nella media del periodo, il nostro pil (al netto dell’inflazione) è aumentato a un tasso medio dello 0,3 per cento, mentre il pil del resto dell’euro area è aumentato a un tasso medio dell’1,4 per cento. In media abbiamo perso più di un punto percentuale all’anno. All’interno di questo periodo, ci siamo trovati in particolare difficoltà quando sono iniziate le salite, cioè in occasione della crisi dell’area dell’euro. Nel triennio 2011-2013 il differenziale di crescita tra noi e il resto dell’area è stato dell’1,7 per cento: negli altri paesi il pil non cresceva molto, ma da noi si riduceva. Successivamente, grazie anche a un insieme di condizioni favorevoli (la generale ripresa dell’economia mondiale, la caduta nel prezzo delle materie prime, la forte politica espansiva della Bce e l’indebolimento dell’euro), l’Europa ha accelerato e anche noi abbiamo ripreso a crescere. Ma, anche in discesa, continuavamo a crescere meno. Nel triennio 2014-16 il differenziale di crescita medio è stato dell’1,3 per cento.

 

Vedremo cosa succederà nel 2017. Se ci basiamo sul tasso di crescita del pil del secondo semestre, il differenziale rispetto al resto dell’Europa dovrebbe essere di circa lo 0,7 per cento (1,5 per l’Italia contro il 2,2 per cento per il resto dell’area), quindi più basso della media del passato, ma sempre positivo e piuttosto ampio. Il distacco dal gruppo in termini di pil continua ad aumentare.

 

Un differenziale di crescita dello 0,7 per cento resta comunque tra i più bassi dal 2000. Avevamo fatto meglio sono nel 2000, nel 2001 e nel 2010. Quindi il 2017 dovrebbe comunque per lo meno essere meno peggio che in passato, se proprio ci vogliamo consolare. C’è stato però un prezzo da pagare: abbiamo dovuto rallentare il processo di aggiustamento dei conti pubblici rispetto alla tabella di marcia originale. Nel 2017 il surplus primario (cioè il bilancio dei conti pubblici al netto della spesa per interessi) dovrebbe migliorare solo leggermente (vedremo presto se questo sarà confermato dal nuovo Documento di Economia e Finanza) sfruttando i margini di flessibilità concessi in Europa. Ma in un anno in cui la nostra crescita sarà dell’ordine dell’1,5 per cento, il surplus al netto della componente ciclica (cioè aggiustato per essere “in discesa”) probabilmente scenderà: la politica fiscale è diventata relativamente espansiva il che ha sostenuto l’attività economica (pensate per esempio gli incentivi all’investimento delle imprese). Anche quest’aspetto è simile al passato. Il periodo 2000-06 era stato caratterizzato da un differenziale di crescita più basso di quello medio, ma era stato un periodo in cui la politica fiscale era diventata espansiva, col risultato di trovarci alla vigilia della crisi globale del 2008-09 senza quelle munizioni che altri paesi usarono per attutire l’effetto della crisi sulla loro economia e di essere successivamente soggetti a pesanti attacchi speculativi come paese ad alto debito.

 

Credo che, nonostante il progresso fatto nel riformare l’economia negli ultimi anni, rimangano parecchi nodi irrisolti. Tra questi c’è ancora un problema di scarsa competitività di costi: il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato dal 1999 a oggi del 41 per cento in Italia contro il 21 per cento in Germania e se stiamo ora recuperando un po’ rispetto a quest’ultima (per l’accelerazione dei salari in quel paese nel contesto del più basso tasso di disoccupazione dal 1980), stiamo perdendo terreno rispetto a Spagna e Portogallo. Quanto al turismo, le ultime due stagioni sembrano essere state ottime (anche perché chi va più in Tunisia, Egitto, Turchia?), ma non dimentichiamoci che in Portogallo gli arrivi sono aumentati di un terzo nel corso degli ultimi tre anni, più che da noi.

 

Un ultimo chiarimento prima di concludere. I dati sulla crescita che ho presentato sopra si riferiscono al pil del paese. La sostanza non cambia molto se guardiamo al pil pro capite: il nostro tasso di crescita dal 2000 al 2016 è comunque più basso di quello del resto dell’euro area di un po’ più dell’1 per cento all’anno. Per il 2017 non ci sono ancora dati disponibili sulla popolazione. Se però prendiamo le previsioni incluse nella banca dati della Commissione Europea (Ameco), che comporterebbero una riduzione della popolazione del nostro paese anche per il 2017, il differenziale di crescita del reddito pro capite tra il resto dell’euro area e l’Italia resterebbe positivo, seppur piccolo (0,1 per cento contro lo 0,4 per cento nel 2016). Insomma, anche in termini di reddito pro capite non stiamo comunque recuperando.

 

In conclusione, sarebbe poco generoso e fondamentalmente scorretto sminuire la ripresa che è in corso e liquidarla con la battuta usata spesso dagli operatori di borsa per cui “anche un gatto morto rimbalza se cade da un punto sufficientemente alto”. La nostra economia non è certo morta e per lo meno il distacco dal gruppo non aumenta tanto rapidamente quanto in passato. Ma continua ad aumentare quando dovrebbe invece ridursi e ridursi rapidamente. Il nostro reddito pro-capite nel 1999, in termini reali, era del 3,5 più alto di quello medio del resto dell’euro area. E’ attualmente del 15 per cento più basso. Occorre darsi da fare se vogliamo continuare a contare in Europa.

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