La Web Tax piace a tutti, ma ha un problema: è sbagliata

Dario Stevanato*

L’approccio istintivo contro i “vampiri digitali” nasconde molte fallacie e ignora le regole fiscali internazionali

L’idea di web tax europea che l’Italia, insieme ad altri Stati dell’Unione, intende presentare alla prossima riunione dell’Ecofin sembra aver suscitato generale approvazione.

Da tempo si lamenta che le multinazionali dell’economia digitale non pagherebbero, nei paesi in cui concludono i loro affari, la giusta quota di imposte sui loro enormi profitti. L’accusa loro rivolta è di eludere le imposte negli stati in cui avvengono la vendita e il consumo di prodotti e servizi, o peggio ancora di nascondere gli utili grazie a strutture societarie artificiose, abusando delle regole sulla residenza fiscale o sulla stabile organizzazione quale centro di imputazione dei redditi.

 

Se anche alcuni studiosi giungono a dipingere le imprese della web economy come vampiri che drenano ricchezza dai paesi in cui vendono le loro merci, senza dichiarare profitti adeguati e corrispondere all’erario their fair share, è scontato l’atteggiamento dell’opinione pubblica sul tema: perché mai piccole e medie imprese italiane, come pure i loro dipendenti, dovrebbero corrispondere imposte elevate sui redditi, mentre ai colossi del web sarebbe concesso di “estrarre ricchezza” dal territorio senza dichiarare il giusto profitto e pagare le tasse dovute?

 

Questo approccio istintivo nasconde tuttavia molte fallacie. Anzitutto, va osservato che la residenza fiscale, quale reasonable link con le pretese impositive di uno stato, non è un incidente di percorso, ma un criterio di collegamento collaudato da tempo e oggi privo di alternative: un’impresa è libera di stabilirsi in una certa giurisdizione fiscale, e specularmente di non esercitare un’analogo diritto con riguardo a un altro territorio.

 

Non basta che la multinazionale faccia affari e venda in un mercato per far sorgere automaticamente una pretesa impositiva nello stato di vendita dei prodotti. In mancanza di una “stabile organizzazione” in quello stato, cioè di un radicamento qualificato secondo quanto prevedono i trattati contro le doppie imposizioni, non esiste una “giusta quota” di profitti da dichiarare in quello stato, dettata dal buon senso comune o da un sentimento di giustizia sociale.

 

Le basi imponibili vengono allocate secondo le leggi esistenti e il diritto tributario internazionale, non in base agli umori delle opinioni pubbliche o alle esigenze di gettito dei governi. Se manca una stabile organizzazione, come oggi la stessa è definita in sede Ocse e nei singoli trattati, la giusta quota da dichiarare è pari a zero. Su tali aspetti è perciò del tutto improprio parlare di un’elusione delle regole del gioco: un’impresa non è obbligata a operare attraverso una stabile organizzazione, se riesce a operare anche senza un radicamento qualificato nel territorio in cui trovano sbocco le sue merci.

 

Le basi imponibili vengono allocate secondo le leggi esistenti e il diritto tributario internazionale, non in base agli umori delle opinioni pubbliche o alle esigenze di gettito dei governi.
Se manca una stabile organizzazione, come oggi è definita in sede Ocse e nei singoli trattati, la giusta quota da dichiarare è pari
a zero

Un diverso elemento di confusione attiene alle complesse architetture societarie che le multinazionali in questione usano allestire per minimizzare il loro carico fiscale: si tratta infatti di un tema che non riguarda lo stato in cui avviene il consumo, ma semmai quello della casa-madre. Trattandosi di multinazionali americane, ad essere erosa è dunque la potestà impositiva degli Stati Uniti, non quella dei paesi europei. Per questi ultimi, è del tutto indifferente che Apple, Google o Amazon abbiano sede o meno in uno stato a bassa fiscalità: in mancanza di una stabile organizzazione sui loro territori, la potestà impositiva di questi stati sui profitti è sempre pari a zero.

 

Oggi le regole di fiscalità internazionale basate sulla residenza fiscale e sul concetto di stabile organizzazione appaiono a molti obsolete, dimenticando che le stesse proteggevano in origine proprio gli stati europei e le loro politiche mercantilistiche, rispetto agli stati di destinazione e sbocco dei loro prodotti. E si dimentica altresì che il concetto di stabile organizzazione non riguarda soltanto le multinazionali dell’economia digitale, ma tutte le imprese meramente esportatrici, come le tante imprese italiane che vendono i loro prodotti all’estero trasportandoli o spedendoli a destinazione.

 

In ogni caso, se la nozione di stabile organizzazione richiede adattamenti per far fronte alle nuove realtà aziendali dell’economia digitale, la stessa deve necessariamente essere rinegoziata in sede Ocse. Soluzioni locali assunte unilateralmente rischiano al contrario di fallire.

 

A tale categoria pare in effetti ascrivibile l’ultima proposta per una web tax europea, di cui colpisce il carattere grossolano e velleitario. Con la stessa si farebbe infatti un salto all’indietro di un paio di secoli, a schemi impositivi dell’era pre-industriale.

Si prevede infatti l’introduzione di una “equalization tax” sui ricavi delle imprese operanti nell’economia digitale, e solo per loro, in luogo dell’ordinaria imposta sui profitti che queste imprese non sono tenute a dichiarare negli Stati di vendita dei prodotti ma che si pretende dirigisticamente di tassare scardinando le logiche della fiscalità internazionale.

 

Avremmo dunque un nuovo tributo spannometrico sul prodotto lordo, dal carattere selettivo, come nei primi tempi dell’industrializzazione, con una evidente sovrapposizione rispetto all’Iva e il rischio di una traslazione a valle sui prezzi dei prodotti e dei servizi.

Si dirà: se non si conoscono i profitti, si tassino allora i ricavi, che sono un’entità percepibile. Peccato che si tornerebbe così alle imposte di patente, sui segni esteriori della ricchezza, e all’abbandono dell’imposta sul reddito determinato contabilmente, che comunque le multinazionali dovrebbero continuare a corrispondere negli stati di radicamento. Ce n’è abbastanza per pensare che la web tax europea, che dovrebbe essere approvata all’unanimità dagli stati membri, nasca già morta.

 

*ordinario di Diritto tributario, Università di Trieste

Di più su questi argomenti: