Un membro dello staff di Deutsche Telekom mostra un robot controllato da realtà virtuale al Bosch ConnectedWorld 2017 di Berlino (foto LaPresse)

Usciremo dal Novecento se anche il "salotto buono" di Cernobbio vellica la tecnofobia italiana?

Marco Bentivogli *

Un rapporto presentato al Forum Ambrosetti teme che i robot ci toglieranno il lavoro, dietro a paragoni un po’ superficiali c’è il ritorno dell’ideologia “no tv color”

È importante che si porti al centro della riflessione del paese il lavoro e, oggi in particolare, al suo rapporto con la tecnologia. È un aspetto molto rilevante che deve servire a riportare il dibattito politico (e le politiche economiche) sulla manifattura e la sua sostenibilità. Siamo un paese abituato ad arenarsi sulla retorica dei pericoli, sulle paure, piuttosto che concentrarci sulle opportunità. A oggi, a dire il vero, la mancanza di investimenti in tecnologie e formazione hanno distrutto occupazione. Le previsioni catastrofiste e iperottimiste non hanno molto senso quando si parla di innovazione e automazione del lavoro. Tutto dipende da noi: in mezzo c’è lo spazio di ciò che faremo o meno e da ciò dipenderanno i dati dell’occupazione, della sua qualità e dei salari. La tecnofobia non è una politica ma è la specialità italiana di credere di affrontare le sfide restando fermi nell’eterno scetticismo dei profeti e manager della sventura o alzando la guardia difensiva del nostro senso comune.

  

La ricerca “su tecnologia e lavoro”Tecnologia e lavoro: governare il cambiamento” presentata al Forum Ambrosetti a Cernobbio questo fine settimana va in quella direzione adombrando, per com’è stata divulgata dalla stampa nazionale, che 3,2 milioni di persone potrebbero perdere il posto di lavoro nell’arco di tempo di quindici anni. La ricerca è basata sugli studi del professore di Oxford Carl B. Frey sul mercato del lavoro americano e inglese con dati una qualità migliore rispetto ai nostri. E’ tuttavia azzardata la riclassificazione di esperienze estere sul mercato italiano proposta all’Ambrosetti perché dati e metodologia viste le diversità profonde, settoriali, contrattuali e demografiche.

 

Analisi su cui nei mesi scorsi sono stato lieto di essermi potuto confrontare con il gruppo di ricerca, nonostante questi rilievi. Anche la comparazione dell’impatto della tecnologia sui settori diversi (più o meno labour intensive) va meglio puntualizzata. Che senso ha confrontare Ford con Google sull’impatto della tecnologia? Forse sarebbe più utile farlo tra Ford e Tesla. E poi se una mansione (non un ruolo) si automatizza, se ne creano altre soprattutto se si sanno costruire nuove organizzazioni del lavoro. Bisognerebbe ragionare sulle linee evolutive delle mansioni, delle imprese e dei settori, su quanto un’azienda come Tesla, per esempio, sarà un’azienda automobilistica o qualcosa di più, qualcuno la definisce “una scusa per raccogliere dati”, appunto il “petrolio” del futuro. È in corso una scomposizione e ricomposizione di cui tenere conto. Le analisi che guardano il mondo attraverso le dinamiche dei codici statistici rischiano di sbandare.

   

I dati presentati rappresentano la perdita dei posti di lavoro non dissimili da quelli che l’industria ha già subito negli ultimi anni. In un paese in cui robot e automazione sono tra noi da più di trenta anni. Industry 4.0, blockchain saranno qualcosa di molto più pervasivo, dentro e soprattutto attorno alla fabbrica, al suo ecosistema e sulla vita di tutti noi. Il tema vero su cui ci sia aspetta qualcosa di più anche dai salotti buoni è sul “che fare”. Anche perché se è costante la diminuzione di occupati, bisogna valutare gli effetti compensativi, ovvero quanto e come nuovo lavoro si crea – e non su quanto allarmismo si genera sui rischi.

  

  

Cosa fare affinché il nostro paese, già fanalino di coda degli “early adopter” , si concentri proprio sul filone dell’investimento sulle persone che anche la ricerca tratteggia? La tecnologia contiene i valori di chi la progetta, non dei tecnofobi, forse è il caso di giocare la partita. Vincerà chi saprà progettare nuove architetture industriali e sociali sostenibili a partire da un foglio bianco.

   

Un primo passo nella direzione giusta è il Piano Calenda, resta il nodo delle piccole imprese e del sud su cui solo il 7 per cento delle imprese hanno fatto richiesta degli incentivi. L’Italia spende poco e male i soldi in istruzione: 1 per cento sotto la media europea, la metà della Germania e non ha un sistema rodato e di qualità per la formazione duale. La ricerca dice, giustamente, che sarà più solida l’occupazione proporzionalmente al livello di istruzione. Noi pensiamo che sarà decisivo superare il paradosso italiano: si abbandona l’istruzione presto, si inizia a lavorare tardi e nel lavoro la formazione, più che “life long learning”, è occasionale e troppo spesso orientata più a saturare il catalogo di qualche centro di formazione che a rafforzare le competenze.

  

Desta qualche sospetto che le stesse grandi società di consulenza americane – proprio quelle che nelle vertenze muovono sempre dal “primum: licenziare!” – siano in testa tra i produttori di dati catastrofisti quando si parla di robot. E anche i californiani, dopo aver fatto miliardi con la tecnologia, oggi propongono la discutibile tassazione dei robot, come Bill Gates, o chi riempie le sue automobili di intelligenza artificiale e poi allarma il pianeta sui “robot killer”, secondo di Elon Musk.

   

Alla platea (a porte chiuse) di Cernobbio, bisognerebbe ricordare che perfino la diffusione della televisione a colori, tecnologia già disponibile dal 1967, venne ritardata per quindici anni. Un grande quotidiano nazionale, l’Unità, titolava “La Tv a colori è caldeggiata dagli industriali e dalla Rai”, per demonizzarla. La questione unì liberali, repubblicani, sinistra radicale e socialdemocratica. Nel 1972-1973, uno dei primi governi Andreotti rischiò di cadere perché il Pri minacciò il ritiro del suo sostegno proprio intorno alla questione della Tv a colori. In quel periodo la Cgil scrisse in una nota che “l’adozione della televisione a colori si muove in senso del tutto opposto alle esigenze del nostro paese”. Fermare il progresso è velleitario, oltreché inutile. Vogliamo essere il paese dove si perdono più posti di lavoro o quello dove si costruisce tanto nuovo lavoro? Altre domande rischiano di essere fuorvianti e di fornire cartucce ai populisti e ai loro progetti di sussidio generalizzato. Noi tra liberarci dal lavoro e liberarci nel lavoro da anni abbiamo scelto la seconda via e paradossalmente la tecnologia può aiutarci più che mai.

   

*segretario generale Fim-Cisl

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