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Come Marchionne ha trasformato Fca in un boccone appetibile

Renzo Rosati

Nel 2005 Gm pagava per non acquisire un’azienda decotta. Ora dopo la cura dell'amministratore delegato esistono compratori veri

Roma. Il titolo Fca (Fiat Chrysler) ha guadagnato anche ieri a Piazza Affari. Pur frenando, lo sprint l’ha portato a guadagnare l’11 per cento in un giorno e mezzo, il 33 dall’inizio dell’anno. Motivo del rallentamento la sospensione alle Borse di Hong Kong e Shanghai di Great Wall Motors, il gruppo automobilistico cinese che lunedì 21, con una mail ad Automotive News del presidente Wal Fenying, aveva confermato “contatti indiretti” con Fca per acquistare il gruppo guidato da Sergio Marchionne. Intenzione rafforzata da una dichiarazione ufficiosa al Financial Times: “E’ sempre stato nostro interesse rilevare l’intero gruppo”. Il tutto mentre una nota di Fiat Chrysler, da Detroit, negava “approcci diretti” sia per Fca sia per il brand Jeep. Finché ieri ha smentito anche Great Wall. Insomma, probabili posizionamenti iniziali in una trattativa che certo presenta aspetti delicati – Great Wall, che produce soprattutto suv, pur essendo una public company, si muove su input delle autorità politiche di Pechino; la Jeep è materia ultrasensibile per la Casa Bianca – più di quanto già non sarebbe nella letteratura corrente dell’“assalto cinese” ai gioielli produttivi italiani, europei e ovviamente americani.

 

E tuttavia, perfino in prima pagina della Stampa, ex quotidiano di famiglia degli Agnelli, suona il consueto allarme contro il pericolo giallo. “Il che ha un senso solo se pensiamo a un’azione europea che tuteli i siti produttivi italiani, tedeschi e francesi contro un trasferimento all’estero di produzione e tecnologia” dice al Foglio Giuseppe Berta, il maggiore storico italiano di problemi dell’auto e docente alla Bocconi. “Ma questo lo si ottiene garantendo ai nostri stabilimenti l’innalzamento della qualità e dei marchi. Che è esattamente la carta giocata da Marchionne quando ha rilanciato Alfa Romeo e Maserati, compresa la decisione di fabbricare a Pomigliano i due marchi premium, in sostituzione ad esempio della Panda. Chi comprerebbe una Stelvio, il nuovo suv dell’Alfa, che non fosse made in Italy? Per non parlare di una Maserati o di una Ferrari. Stesso discorso per la produzione di eccellenza tedesca, vedi la Bmw”. In altri termini, dice Berta, non servono a nulla, anzi sono controproducenti, le prevedibili nostalgie protezionistiche, compresi i ricorrenti richiami alla Cassa depositi e prestiti, per difendere i “grandi numeri” delle fabbriche Fca.

  

“La difesa non sta in un’improbabile nazionalizzazione, magari con la Fiat sussidiata dallo stato come un tempo, ma nell’innalzamento della qualità produttiva, anche tutelata da brevetti europei, che proprio Marchionne ha imposto al gruppo a partire dall’Italia”, dice Berta. A norme europee “non ad aziendam”, quindi non su misura per Fca, accenna anche il ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda. Ma molto probabilmente l’interesse straniero, cinese o meno, per Fca si riaccenderà. E magari prima o poi il gruppo passerà di mano. “E questo perché si va verso un consolidamento dei grandi gruppi dell’auto, e Fca è oggi appetibile” osserva Berta. “Mentre con 24 milioni di veicoli e trend di crescita nell’ultimo anno del 43 per cento, cioè di 10,5 milioni di vetture e camion, la Cina ha un evidente problema di acquisire produzioni all’estero. Inoltre la sua industria ha capitali garantiti dallo stato e dal Partito. Insomma è il predatore perfetto, ma questo non significa che le prede, comprese quelle italiane, siano destinate ad un futuro da vittime”.

  

Potrebbe invece essere l’occasione per ripassare utilmente un po’ di storia recente dell’auto italiana, anche per capire meglio come tutelare le eccellenze. Cominciando dal 2005, quando General Motors preferì pagare al gruppo Agnelli 1,55 miliardi di penale pur di sciogliere il vincolo del 2000 che dava a Gm il settore auto di Fiat – Ferrari esclusa – in cambio di una quota della holding torinese nella public company di Detroit. Il divorzio fu presentato dall’allora presidente di Fiat, Luca Cordero di Montezemolo, come un successo; in realtà stroncava il sogno di Gianni Agnelli (scomparso nel 2003) di mollare la produzione portando la famiglia nel gotha finanziario mondiale. Sprattutto si trattò di un caso unico, e un po’ umiliante, di azienda che paga per non comprarne un’altra. Marchionne, che allora era amministratore delegato senza deleghe strategiche, impiegò quel miliardo e mezzo, per fare uscire la Fiat dall’emergenza. Liquidate per le spicce le banche creditrici – altro vincolo storico del capitalismo di relazione della vecchia Fiat – investì a Pomigliano, che allora deteneva il record di stabilimento meno produttivo d’Europa, trasferendovi la produzione della Panda, fabbricata in Polonia. “Già riuscire a rimettere in funzione Pomigliano sembrò un miracolo, in realtà si trattò di una soluzione-tampone per negoziare con i sindacati disposti ad accettare accordi di produttività, e dimostrare che riprendere a fare auto in Italia era possibile” dice Berta. L’accordo che tagliò fuori la Fiom, con tanto di ricorso alla Corte costituzionale, scioperi falliti e ascesa di Maurizio Landini nei talk-show, avviò un dibattito non solo a sinistra ma tra i benpensanti moderati e nella destra sovranista, con ogni mossa di Marchionne seguita da sprezzante scetticismo. Gli vennero rimproverati gli aiuti di stato, ottenuti in realtà nell’éra Agnelli. Eppure Marchionne non chiese, né ottenne, nessun aiuto. Si disse che non aveva modelli validi. E quando nel 2009 si accordò con la Casa Bianca e i sindacati americani per acquisire la Chrysler – proprietaria della Jeep – che aveva iniziato le procedure di liquidazione, fu l’establishment europeo, oltre che italiano, ad accusarlo di aver fatto il passo più lungo della gamba e di voler trasferire tutto in America.
Ancora meno la passò liscia nella narrazione nazionale quando nel 2014 spostò a Londra la sede fiscale del gruppo divenuto nel frattempo Fiat Chrysler Automobiles (Fca), e quella legale ad Amsterdam. Dimenticando che le tasse sui veicoli venduti in Italia, e sulle forniture dell’indotto, sono sempre state pagate qui, mentre il risparmio sugli utili consolidati del gruppo è stato in gran parte utilizzato per investire e rilanciare i marchi premium, Alfa Romeo e Maserati. E soprattutto sul primo, pochi erano disposti a scommettere un centesimo. Il divorzio dalla retorica salottista fu formalizzato con l’uscita da Confindustria, dal gennaio 2012. L’associazione degli imprenditori, tradizionalmente consociativa, era guidata da Emma Marcegaglia (che commentò: “I motivi? Non stanno in piedi”), e prima di lei proprio da Montezemolo. Fatto è che i contratti aziendali di produttività “stile Marchionne” sono quelli che oggi si stanno affermando nella manifattura italiana, e che la stessa Confindustria ora dice di voler perseguire. “Tutto questo ci insegna una cosa – dice Berta – Marchionne aveva ragione. Il che significa anche che se Fca verrà venduta, o sarà invece acquirente di una concorrente, ha poca rilevanza per il nostro sistema produttivo. Senza contare che un eventuale interesse cinese potrebbe riguardare la parte generalista di Fca, cioè Fiat e Chrysler, mentre potrebbero restare italiane Alfa, Maserati e naturalmente Ferrari”.

 

Goldman Sachs ha appena aggiornato le stime di questo settore scorporato dal resto, ricavandone un valore di 30,5 miliardi di dollari (22,5 Jeep, 5,8 Maserati, 2,5 Alfa). Cioè 10 miliardi più di quanto Fca capitalizza attualmente a Wall Street. Ma Berta cita un altro precedente virtuoso, la Pirelli: “Quando è passata a ChemChina molti hanno gridato allo scandalo. Ma la produzione in Italia è aumentata, l’azienda sta assumendo e il polo di ricerca e tecnologia di Settimo Torinese, dedicato ai pneumatici ad alta prestazione e per la Formula 1, è oggi leader in Europa. E Pirelli tornerà a quotarsi a Milano”. Nel 2004 il titolo Fiat valeva 4 euro. Oggi, nonostante la crisi e lo scorporo della Ferrari, Fca quota il triplo. Nello stesso periodo la Volkswagen è scesa da 210 a 127 euro. Ancora: nel 2005 General Motors pagò 2 miliardi di dollari per non comprare la Fiat, oggi per averla ne servirebbero trenta volte tanto. Cinesi o non cinesi.

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