Il Pil e la rivincita della riforme pro mercato. Ecco i numeri

Marco Fortis

La crescita del pil (Francia e Germania fanno meglio solo perché hanno più spesa pubblica) è anche il risultato delle politiche finalmente entrate a regime: dal Jobs Act all’industria 4.0

Declinisti, malumoristi, populisti-sovranisti, zerovirgolisti e gufi vari questa volta prolungheranno le vacanze o faranno finta di non essersi accorti. Perché non è soltanto lo 0,4 per cento di aumento congiunturale del pil italiano nel secondo trimestre 2017 (rispetto al primo trimestre) reso noto ieri dall’Istat a costituire una solida buona notizia. Il dato chiave è soprattutto il tasso trimestrale tendenziale di crescita dell’1,5 per cento della nostra economia rispetto al secondo trimestre 2016. Un aumento anno su anno che non si registrava dal secondo trimestre del 2011. Quando però le statistiche “rimbalzavano” come un gatto morto (dead catbounce). Quella di allora, infatti, non era proprio una crescita che si poteva definire “naturale”, dopo il crollo del nostro pil causato dall’esplosione della bolla mondiale dei subprime: stavamo semplicemente rimbalzando dopo un calo tendenziale record del 7,1 per cento nel primo trimestre del 2009, seguito da un altro terribile meno 6,9 per cento nel secondo trimestre e poi ancora da un meno 5,2 per cento nel terzo trimestre dello stesso anno. Sicché, per rivedere un tasso trimestrale tendenziale di crescita “normale” del pil italiano – ante Lehman Brothers – migliore dell’1,5 per cento di questo felice secondo trimestre del 2017 bisogna addirittura andare indietro al secondo trimestre del 2007, cioè a ben dieci anni fa, prima che scoppiasse l’apocalisse.

 

Qualche irriducibile politico o commentatore del “malumore”, un po’ come quei reduci giapponesi rimasti per anni ignari nella giungla dopo la fine della guerra, non mancherà certo di far notare che se il pil italiano è progredito congiunturalmente nel secondo trimestre 2017 dello 0,4 per cento, quello francese ha fatto più 0,5 e quello tedesco più 0,6. Da tempo sosteniamo che questo residuo differenziale di crescita tra noi e gli altri due maggiori paesi dell’Euro-area dipende ormai quasi unicamente dalla spesa pubblica, che noi dobbiamo contenere mentre Parigi e Berlino continuano a fare a piene mani. La realtà su cui vale la pena di concentrarci è invece che la progressione del tasso di crescita trimestrale tendenziale del pil italiano negli ultimi dodici mesi, sostenuto unicamente dalla nostra rilanciata componente privata, è avvenuta a passo sicuro e vieppiù accelerato: più 1 per cento nel terzo trimestre 2016 e più 1,1 per cento nel quarto, poi più 1,2 per cento nel primo trimestre di quest’anno ed ora più 1,5 per cento nel secondo. E’ una successione di dati positivi che rappresenta la sintesi di tanti contemporanei miglioramenti della nostra economia sui quali ci siamo soffermati nei nostri ultimi articoli: dall’occupazione alla produzione industriale, dall’export al turismo, dai servizi all’edilizia e al mercato immobiliare (solo l’agricoltura ha un po’ frenato). Forse questo 1,5 per cento di crescita anno su anno riuscirà finalmente a mettere a tacere il tormentone dello zero virgola che è stato a lungo imperante nel nostro paese dell’eterno scontento (persino quando le cose migliorano con tutta evidenza). Naturalmente essere tornati a crescere oltre l’uno per cento all’anno non significa che l’economia italiana sia guarita dalle profonde ferite che le ha inflitto la doppia recessione. Ma che il nostro sistema economico abbia imboccato con decisione la via della riabilitazione questo è evidente. Lo dimostra anche il fatto che l’Istat ha corretto al rialzo il tasso congiunturale di crescita del quarto trimestre 2016 che inizialmente era stato stimato a più 0,2 per cento, poi portato a più 0,3 per cento ed ora, con gli arrotondamenti, innalzato a più 0,4 per cento. Per cui sono ormai tre trimestri consecutivi che il pil italiano aumenta costantemente dello 0,4 per cento.

 

Il valore del pil italiano nel secondo trimestre 2017 è tornato in termini reali quasi ai livelli di fine 2011, cioè ha recuperato tutto ciò che aveva perso durante l’austerità.

 

Naturalmente – faranno di nuovo notare i “malumoristi” più ostinati – siamo ancora lontani dai livelli pre-crisi e i valori trimestrali attuali del pil sono uguali a quelli che l’Italia aveva nell’ultimo trimestre del 2003. E’ vero. Ma è altrettanto certo che ciò non è colpa degli ultimi due governi, durante i quali il nostro pil è invece aumentato del 3 per cento, di cui il 2,3 per cento dal 2015 in poi, quando tutte le politiche economiche attivate (dagli 80 euro al Jobs Act e alle decontribuzioni, dall’eliminazione della componente lavoro dell’Irap al super-ammortamento, dai bonus ristrutturazioni e per i mobili al patent box, fino al piano Industria 4.0) sono entrate a pieno regime. Ci viene perciò spontanea una domanda: lo sanno i malumoristi che nell’ultimo trimestre 2013, cioè dopo gli ultimi tre governi che hanno preceduto gli ultimi due, il pil italiano era tornato ai livelli del primo trimestre 2000? Il disastro è avvenuto allora, non dopo. In altre parole, durante i mille giorni di Renzi e poi durante il governo Gentiloni ci siamo perlomeno ripresi 3 dei 13 anni che erano andati in fumo fino al 2013. Gli italiani ne hanno la consapevolezza?

 

Non so se ciò basterà a far cambiare, almeno agli storici, il giudizio che tanti hanno frettolosamente dato in questi anni alle scelte di Matteo Renzi in campo economico: scelte talora magari un po’ irruenti ma coraggiose, temperate dalla saggezza dei vari ministri che lo hanno aiutato, da Padoan a Calenda fino a Delrio. La realtà è che un non-tecnico, un non esperto di economia, un politico puro alla presidenza del Consiglio ha finalmente preso delle decisioni secche per far invertire la rotta alla nostra economia che era letteralmente allo sbando: scelte da far tremare i polsi, compresa la richiesta rivoluzionaria di un po’ di flessibilità in Europa per racimolare qualche soldo per finanziare gli 80 euro e il Jobs Act. I suoi ministri queste scelte gliele hanno un po’ limate, talvolta frenate, in un gioco di squadra che Renzi ha comunque condiviso. E’ così ripartito il pil senza scassare il deficit pubblico mentre il debito si è dapprima stabilizzato e quest’anno calerà per la prima volta in rapporto al pil dal 2007; grazie al Jobs Act abbiamo oltre 800 mila occupati in più (di cui 2/3 permanenti) e grazie alle minori tasse abbiamo oltre 30 miliardi di reddito reale delle famiglie in più (che hanno fatto ripartire i consumi), mentre gli ordini di macchinari e tecnologie delle imprese stanno letteralmente volando: tu chiamala, se vuoi, “Renzinomics”. Un mosaico di tanti piccoli tasselli successivi, nessuno singolarmente decisivo ma tutti utili, a cui manca ora solo quello della decontribuzione per i giovani neo-assunti e qualche altra saggia aggiunta ragionevole compatibile con la tenuta dei conti dello stato. Si poteva fare di più? Può darsi, ma accontentiamoci. Ben consci che non è che le ricette alternative dei tanti esperti di economia (che nel nostro paese rivaleggiano per numero solo con gli aspiranti allenatori della Nazionale di calcio) fossero poi così miracolose…

 

La “Renzinomics” è stata dapprima duramente criticata, talvolta sbeffeggiata infine addirittura quasi “rimossa” dall’immaginario psicologico collettivo, nel dibattito politico, nei talk-show e negli editoriali, come se non fosse mai esistita. Il 4 dicembre 2016 l’Italia ha perso il treno delle riforme per colpa della retorica populistica contro la bufala dell’“uomo solo al comando”. Ci sono rimasti, per fortuna, almeno gli effetti positivi della “Renzinomics” ed è soprattutto per questa ragione, non per altro, che il pil italiano è tornato a crescere all’1,5 per cento annuo.

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