Perché la proposta di riscatto gratuito della laurea peggiorerà le condizioni dei giovani

Luciano Capone

La misura che tutti definiscono equa in realtà finirà per avvantaggiare i redditi più alti

Roma. Il governo sta studiando come far diventare legge il riscatto gratuito della laurea ai fini pensionistici. La proposta, che sembra un’idea grillina, è in realtà nata tra i Giovani democratici (l’organizzazione giovanile del Pd), si è diffusa sui social network con l’hashtag #Riscattalaurea ed è poi stata raccolta dal sottosegretario all’Economia dem Pier Paolo Baretta. Il riscatto della laurea permette di valorizzare ai fini pensionistici il periodo del proprio corso di studi, attraverso il versamento volontario dei contributi da parte del lavoratore per un numero di anni pari agli anni del corso di laurea frequentato (eccetto i periodi fuori corso). Questo istituto consente quindi a chi è laureato di conteggiare ai fini previdenziali gli anni dell’università come se avesse lavorato e versati i rispettivi contributi, e di conseguenza permette da un lato di andare in pensione in anticipo e dall’altro di ricevere un assegno più generoso.

 

Come si può facilmente comprendere, e come ben sa chiunque abbia provato a riscattare gli anni universitari, si tratta di una misura costosa: in base al reddito (e di conseguenza ai contributi corrispettivi) dai 30 mila ai 60 mila euro. Secondo la proposta allo studio del governo questa somma dovrebbe essere a carico dello stato per agevolare i giovani che hanno, rispetto ai propri genitori, una vita lavorativa più lunga e discontinua e pensioni più basse: “Siccome studiare e laurearsi è prezioso anche per la nostra economia – ha dichiarato Baretta – è giusto che lo stato investa sul futuro dei giovani e si assuma l’onere dei contributi figurativi degli anni di studio”. Ma questa misura aiuta i giovani? Serve a investire sul futuro? Ed è una misura equa?

 

 

Intanto bisogna dire che la formula “riscatto gratuito” è un ossimoro, perché un riscatto ha per definizione un costo. E non lo paga chi riceve il beneficio, che quindi non riscatta nulla. Quello che in questo caso si propone è di regalare a una fascia di persone anni di contribuzione, pertanto andrebbe definita come “donazione onerosa della laurea ai fini pensionistici”. Ma se questo bonus è oneroso, chi paga? Quali sono gli effetti distributivi? La misura sarebbe fortemente regressiva perché, visto che si basa sull’ultimo stipendio percepito, avvantaggerebbe chi ha redditi più alti: “Si tratta di un esito paradossale – ha scritto Luca de Vecchi su Strade – infatti l’obiettivo dichiarato è il sollievo proprio di quelle situazioni di disagio dei lavoratori discontinui e poco pagati che rischiano di avere una pensione al di sotto della sussistenza”. Ma è ancora più iniqua se si considera chi non ha preso una laurea, che magari fa un lavoro umile e si trova sul groppone anche i contributi pensionistici di un medico o di un notaio. Se la laurea è un investimento che già garantisce – anche da un punto di vista legale per l’accesso a determinate professioni – maggiori redditi futuri e quindi pensioni più alte, perché deve pagare chi non l’ha frequentata e per giunta guadagnerà di meno?

 

Si può considerare la giustificazione dell’intervento come di un investimento sullo studio, considerato come un’esternalità positiva per la collettività. Ma è il modo migliore, quello di regalare anni di pensione, per incentivare la cultura e l’istruzione? Non sarebbe preferibile aumentare le borse di studio, premiare gli studenti meritevoli e investire nella ricerca?

 

Il dibattito attorno alla “donazione onerosa” della laurea in realtà è una spia di un problema più profondo e più drammatico nel paese, che è l’ossessione pensionistica. Non si contano i provvedimenti per aumentare gli assegni pensionistici, per ridurre l’età pensionabile, per smontare la legge Fornero. E anche quando si parla di politiche per i giovani si risponde con aumenti di spesa previdenziale: staffetta generazionale per combattere la disoccupazione giovanile e “riscatto gratuito” per rispondere alle carriere discontinue. Per ogni problema economico c’è una spesa previdenziale che lo risolve. C’è stata addirittura un’involuzione rispetto al sindacalismo degli anni ‘70: si è passati dalla fallimentare tesi sraffiana del ‘salario variabile indipendente’ a quella insostenibile della ‘pensione variabile indipendente’.

 

Almeno all’epoca, anche se in maniera erronea, si puntava comunque su un’attività produttiva come il lavoro: “Ci siamo resi conto che un sistema economico non sopporta variabili indipendenti – ammetteva nel 1978, dopo un decennio di lotte sindacali, il segretario della Cgil Luciano Lama – Ebbene, dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza, perché in un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall’altra”. E la pensione non fa eccezione.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali