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Più deficit per crescere e ridurre il debito. Bella idea, ma non funziona

Carlo Cottarelli

I vincoli ai conti pubblici non sono le regole di Maastricht, ma quelle non scritte dei mercati. La via maestra sono le riforme

Ah, il denominatore! Era dai tempi della scuola media che non pensavo tanto al denominatore. Il denominatore: quella cosa che sta sotto il segno di frazione e che, se aumenta, fa scendere il valore di un rapporto. Il denominatore è tornato a essere al centro dei miei pensieri (e di quelli di molti commentatori delle vicende di finanza pubblica italiana) per via del debito pubblico. Non pochi hanno di recente sostenuto che ridurre il rapporto tra debito e pil – il principale indicatore di sostenibilità dei conti pubblici – non richiede misure di austerità e un taglio del deficit pubblico (lo squilibrio tra entrate e spesa) per frenare l’accumulo di debito (il numeratore del rapporto). Quel che serve è semplicemente, una maggiore crescita del Pil, il denominatore del rapporto. I più audaci si sono anche spinti a sostenere che un’accelerazione del Pil può essere ottenuta proprio attraverso la leva fiscale, cioè aumentando il deficit: alcuni preferiscono un taglio delle tasse, altri un aumento degli investimenti pubblici, ma in entrambe i casi il deficit aumenterebbe.

 

In realtà, per quanto importante sia la crescita per ridurre il rapporto tra debito e pil, la crescita di per sé non basta, se non la si accompagna a quella che chiamerei una moderata austerità fiscale, insomma, una graduale riduzione del deficit fino al raggiungimento del pareggio di bilancio. A maggior ragione, non si può fare affidamento su un aumento del deficit pubblico (cioè un accumulo di maggior debito) per ridurre il rapporto tra debito e pil, come del resto ci direbbe il buon senso. Vediamo perché.

 

Naturalmente è più facile mantenere i conti in ordine se si cresce. Ma occorre resistere alla tentazione di spendere quelle maggiori entrate (o di tagliare le tasse senza ridurre la spesa), altrimenti il deficit non va giù. Insomma, ci vuole non solo crescita, ma anche un po' di disciplina fiscale.

L’aritmetica (bella scoperta) ci dice che il denominatore ci può aiutare a ridurre un rapporto. Se il pil cresce più rapidamente il rapporto tra debito e pil scende più rapidamente. A parità di deficit, però l’effetto non è molto forte. Prendiamo un tasso di crescita del pil del 3 per cento l’anno in termini nominali (un punto e mezzo di crescita reale e un punto e mezzo di inflazione). Questo è meglio della performance italiana negli anni più recenti, ma è più o meno la velocità di crescita prevista dall’ultimo Documento di economia e finanza (Def) per i prossimi anni. E non andrei oltre perché piani di aggiustamento dei conti basati su prospettive troppo ottimistiche non sono credibili. Supponiamo di mantenere il deficit al livello attuale, cioè a circa il 2 per cento del pil. Con un deficit del 2 per cento del pil e una crescita del pil del 3 per cento (foglio Excel alla mano) potrete verificare che dopo 10 anni un rapporto tra debito e Pil che parta dal 133 per cento (come quello italiano) si sarà ridotto al 117 per cento: 16 punti in meno. Vediamo però che succede se il paese, invece di avere un deficit, ha il bilancio in pareggio: dopo 10 anni il rapporto tra debito e Pil si sarà ridotto di 34 punti percentuali, più del doppio che nel primo caso (attenzione, non sto dicendo che dobbiamo pareggiare il bilancio immediatamente! Sto solo facendo vedere la differenza tra due scenari che differiscono in termini di deficit a parità di tasso di crescita). Quindi, se ci basiamo solo sul denominatore, il nostro debito scenderà rispetto al pil, ma molto più lentamente. Occorre invece interrompere l’accumulo di debito, pareggiando il bilancio. E, in effetti, i paesi europei che sono riusciti ad abbattere il debito in modo significativo si sono almeno avvicinati al pareggio di bilancio: il Belgio tra il 1993 e il 2007 ha ridotto il proprio debito di oltre 50 punti percentuali di pil, facendo scendere il proprio deficit dal 7 e mezzo per cento del pil nel 1993 a una media di poco superiore a mezzo punto percentuale nel decennio 1998-2007.

 

Naturalmente è più facile mantenere i conti in ordine se si cresce perché aumentano le entrate dello stato. Ma occorre resistere alla tentazione di spendere quelle maggiori entrate (o di tagliare le aliquote di tassazione senza ridurre la spesa), altrimenti il deficit non va giù e ci si basa solo sull’effetto denominatore. Insomma, ci vuole non solo crescita, ma anche un po’ di disciplina fiscale.

 

Detto questo, occorre cercare di aumentare il nostro tasso di crescita, perché, insieme a un moderato grado di austerità (accentrato sul risparmio delle maggiori entrate che derivano dalla crescita stessa), la maggiore crescita facilita certamente la riduzione del debito. Ma come si fa ad aumentare il tasso di crescita dell’economia (che sta aumentando, ma siamo ancora sotto la media europea)? La via maestra è quella di continuare la strada delle riforme strutturali per diventare più competitivi e produttivi. E’ il solito elenco: ridurre la burocrazia, migliorare ulteriormente il funzionamento della giustizia, aumentare la concorrenza, tagliare le tasse finanziando il taglio con risparmi di spesa, eccetera. Ma siccome l’effetto delle riforme strutturali è incerto, almeno di orizzonte temporale, occorre essere prudenti nel prevedere un aumento della crescita, come lo è stato il governo anche nell’ultimo Def. Se poi le cose vanno meglio del previsto, i mercati ci premieranno.

 

Non credo invece sia credibile cercare di aumentare la crescita e abbattere il rapporto tra debito e pil aumentando il deficit, cioè indebitandosi di più. Questo per vari motivi. Prima di tutto, come abbiamo visto, non conta solo il denominatore, ma conta anche il numeratore: il Pil potrà pure crescere più rapidamente, ma se il deficit diventa più grande, anche il debito si accumula più rapidamente. Secondo, perché un deficit più grande, al meglio, fa crescere di più nel breve periodo ma non nel lungo periodo. Qui le cose si fanno un po’ più complicate, ma il punto è importante: se io porto il deficit dal 2 al 3 per cento il tasso di crescita del pil aumenta nell’immediato, ma poi torna al livello precedente a meno di non aumentare il deficit ulteriormente. Infatti, almeno se ci basiamo su effetti “keynesiani”, cioè sull’effetto del deficit sulla domanda aggregata, il deficit influenza il livello del pil, non il suo tasso di crescita di medio periodo: per esempio, più spesa vuol dire un pil più alto (e quindi nell’immediato la crescita aumenta), ma poi se la spesa e il deficit non aumentano ulteriormente, il pil resta fermo allo stesso livello, e il suo tasso di crescita torna al livello originario. A questo punto, però qualcuno obietterà che un deficit più alto consente di fare tante belle cose che aumentano la capacità di crescita dell’economia dal lato dell’offerta. Per esempio, se taglio le tasse recupero competitività, ripartono gli investimenti privati, tutti diventano più ottimisti e così, in un mondo migliore, cresciamo di più non in un solo anno, ma nel lungo periodo. E’ la “supply side” story. Bella, ma non funziona. Ci provò Reagan durante la sua presidenza a tagliare le tasse per ridurre il debito: il debito pubblico americano aumentò di 20 punti percentuali.

 

C’è un ultimo punto da considerare. Ho dato per scontato che, anche per un paese indebitato come l’Italia, un aumento del deficit possa avere un effetto espansivo sul pil e sulla crescita, seppure temporaneamente. Non ne sarei tanto sicuro. Come reagirebbero i mercati finanziari alla notizia di un aumento del deficit, soprattutto in una fase in cui gli acquisti di titoli di stato da parte della Banca centrale europea si ridurranno progressivamente? Probabilmente i tassi di interesse e lo spread aumenterebbero e questo frenerebbe la crescita. Senza contare il rischio che affronteremmo, se, partendo da un deficit più elevato, si verificasse uno shock esterno, tipo la crisi globale del 2008-09 o quella greca del 2011-12: se si parte da un deficit già elevato e c’è uno shock che causa una recessione a quel punto o si lascia esplodere il debito (ma i mercati smetterebbero di comprare titoli di stato), o, nel mezzo della recessione, ci tocca tagliare la spesa drasticamente o aumentare le tasse, insomma quello che Monti, non per colpa sua, si trovò obbligato a fare per non continuare a prendere a prestito a tassi insostenibili.

 

Post-scriptum: avrete notato che non ho mai nominato le regole europee (Maastricht, Fiscal compact, Stability and growth pact). I vincoli alla nostra finanza pubblica non derivano tanto da quelle regole, ma da quelle non scritte dei mercati finanziari: chi ha troppo debito non può permettersi di aumentarlo ancora.

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