Mario Draghi (foto LaPresse)

Quando Draghi chiude i rubinetti

Redazione

S’avanza la fine del Qe e presto l’idea di crescere a debito sarà pura fantasia

L’annuncio che Mario Draghi tornerà a fine agosto al summit dei banchieri centrali di Jackson Hole, sulle Montagne Rocciose, rilancia le illazioni sull’imminente fine del Quantitative easing, l’acquisto di obbligazioni pubbliche e private della Banca centrale europea. Il Wall Street Journal si aspetta che proprio dal Wyoming arrivi lo stop: poco plausibile visto che il 7 settembre il board della Bce tornerà a riunirsi a Francoforte, ed è dalla sua sede istituzionale che arriveranno notizie ufficiali. Tuttavia sarà impossibile che mercati e analisti facciano finta di niente per il ritorno (dopo tre anni di assenza) di Draghi al forum annuale di banchieri centrali più seguito. La Bce al suo interno è divisa sulla fine degli stimoli, tra chi vorrebbe una stretta rapida (Germania e Olanda in testa) e chi (come il banchiere lettone Ilmars Rimsevics) ha detto che lo stimolo potrebbe continuare per altri due anni. Al di là delle discussioni interne, per autunno tutti gli addetti ai lavori danno per scontato l’annuncio del percorso del “tapering”, la fine del denaro facile. Secondo gli analisti della banca giapponese Nomura dovrebbe comportare entro giugno 2018 la progressiva riduzione a zero degli acquisti (oggi 60 miliardi al mese), ed entro fine anno un primo rialzo dei tassi, da zero a 0,1 per cento. Anche la svizzera Swissquote prevede lo stesso itinerario, posticipando la data dell’annuncio al 26 ottobre. Mentre nulla dovrebbe accadere nella prossima riunione della Bce del 20 luglio. Nell’attesa i mercati sono in fermento: i tassi dei bond sono tutti in rialzo, compreso il bene rifugio del Bund decennale tedesco, passato in un anno da meno 0,1 a più 0,6: il 700 per cento. Nello stesso periodo i Btp italiani sono saliti in collocamento da 1,6 a 2,1. L’aumento dei rendimenti taglia il valore delle obbligazioni, che infatti in Europa hanno già bruciato 250 miliardi. Ma la normalizzazione, benché per piccoli passi (Draghi resterà alla Bce fino ad ottobre 2019), è nei fatti; il che spiega anche il rafforzamento dell’euro sul dollaro, benché la Federal Reserve abbia già portato i tassi all’1,25 per cento. Per Nomura l’euro continuerà ad apprezzarsi fino a quota 1,30, penalizzando l’export compensato dai consumi interni e dalla crescita media europea, seppure non da boom: 2,1 quest’anno; mentre Bankitalia ha ieri rivisto da 0,9 ad 1,4 la stima 2017 del nostro paese, prevedendo nel 2019 il ritorno del pil al livello del 2011. Infine pesano le pressioni delle banche con margini d’intermediazione ridotti a zero. Inutile dire che la fine dell’alimentazione assistita dei debiti pubblici graverà soprattutto sui 2.278 miliardi dell’Italia: per finanziarlo ogni punto di aumento dei tassi costerà 23 miliardi l’anno. Crescere a debito? Game over.

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