Il premier giapponese Shinzo Abe con il presidente dell'Ue, Donald Tusk (foto LaPresse)

Libero mercato tra Europa e Giappone. All'Italia conviene?

Giulia Pompili

Grande entusiasmo in Ue per l'accordo com Tokyo ma Calenda predica calma e parla di “liberalismo pragmatico”: fare affari con tutti, ma senza subire le regole altrui. E nel nostro paese resta il problema della burocrazia

Roma. Dovremmo forse ringraziare il referendum sulla Brexit inglese e l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump per questo straordinario risultato, si dice spesso tra chi lavora sin dal 2012 al trattato di libero scambio tra Europa e Giappone. La spinta protezionista ha accelerato la chiusura dei negoziati, fino all’annuncio di un accordo di massima, presentato in pompa magna durante l’ultimo G20 di Amburgo e simbolicamente fotografato dalle facce sorridenti del primo ministro giapponese Shinzo Abe, del presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, e del presidente della Commissione, Jean Claude Juncker.

 

Le ultime due settimane di negoziati prima della firma, fortemente voluta dalla Commissaria al Commercio Cecilia Malmström, sono state fittissime: secondo Mauro Petriccioni, l’italiano che ha guidato i negoziatori europei, si è dormito a stento per arrivare al 6 luglio scorso con un accordo. E adesso c’è molta – forse perfino troppa – aspettativa per il Free Trade Agreement tra Tokyo e Bruxelles, che secondo le più ottimistiche previsioni dovrebbe entrare in vigore entro l’inizio del 2019. L’unico a frenare un po’ gli entusiasmi è il ministro dello Sviluppo economico italiano, Carlo Calenda, che intervenendo a un evento organizzato alla Camera dalla Fondazione Italia Giappone dal titolo “La trattativa EPA a Bruxelles”, ha detto che “siamo in una fase delicata” per via dell’approccio protezionista internazionale, e che il potenziale economico dell’accordo è notevole, ma la cosa ben più importante è che “un accordo va valutato nei dettagli”.

 

  

Calenda insiste sulla necessità di trovare compromessi, e stabilire nuove regole comuni, ma non lasciare campo libero, o peggio, subire le regole altrui. E questo vale sia per il settore agroalimentare sia per quello automobilistico, che “potrebbe avere grandi opportunità” ma è stato volontariamente messo “sotto tutela” particolare, proprio per analizzare i dettagli. E quando gli chiediamo se questo accordo possa influenzare il rapporto dell’Europa, dell’Italia con la Cina, Calenda parla di “liberalismo pragmatico”, che vuol dire: fare affari con tutti, purché esistano le condizioni. Nel febbraio scorso la Malmström aveva chiesto ad alcuni paesi dell’Unione che avevano accolto di più gli investimenti cinesi, tra cui l’Italia, di porre attenzione alla reciprocità della presenza italiana-europea in Cina, per esempio. Proprio per mettere un freno alla Cina, si lavora adesso per andare oltre il semplice accordo commerciale che prevede l’abolizione dei dazi (e l’agroalimentare italiano, esportato in Giappone, sarà quello a guadagnarci di più: per fare un esempio, basti pensare che il Parmigiano reggiano a Tokyo è tassato al 40 per cento). Tutti puntano alla libera circolazione di idee, tecnologie, investimenti. E’ quello che Mauro Moretti, tra le altre cose presidente dell’Italy-Japan Business group, chiama “la conquista del Pacifico”, ovvero raggiungere l’Asia proprio nel momento in cui l’America sembra più riluttante.

  

Ma siamo pronti ad accogliere investimenti stranieri? Su questo punto Hideo Minato, presidente della Camera di commercio giapponese in Italia, ha le idee chiare: “Nessun paese ha mai prosperato con il protezionismo”, dice, “ma qui c’è un altro tipo di problema”. Ci sono 300 aziende giapponesi in Italia. Nel 2016 di tutti gli investimenti giapponesi in Europa solo l’1 per cento era destinato all’Italia. E l’ostacolo “sono i permessi, le autorizzazioni, la burocrazia troppo complessa che ferma gli investimenti. E poi la tassazione, che è altissima e spesso poco chiara”. Minato dice che con la Brexit e il trattato, il Giappone investirà di più in Europa, ma “è necessario che esistano le condizioni per farlo. In Italia abbiamo problemi anche sulla mobilità del personale, per via delle leggi sull’immigrazione. A un dipendente giapponese che deve lavorare qui tre anni servono sei mesi solo per ottenere i documenti necessari ad acquistare, non so, un’automobile. E poi deve sostenere un esame di lingua, ma perché? Non succede in nessun altro posto in Europa”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.