Wolfgang Schäuble (foto LaPresse)

In Germania l'austerità che riduce le tasse è capitale elettorale

Renzo Rosati

Il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble ha annunciato tagli fiscali e maggiori investimenti. Eppure il rapporto tra debito e pil, ora al 66 per cento, secondo il governo tornerà dopo 10 anni sotto al 60

Roma. A ridurre le tasse sui redditi dei tedeschi saranno destinati 14,8 miliardi di euro dal 2018 al 2021, come risultato di un surplus di bilancio pubblico della Germania che a fine 2016 è stato di 23,7 miliardi, lo 0,8 per cento del pil. Lo scorso anno è stato il terzo consecutivo – ma l’attivo si può già dare per acquisito anche nel 2017 – che Berlino ha speso, capitale più interessi, meno di quanto incassato, causa l’abbattimento del debito, la ripresa sostenuta soprattutto dall’export e anche (nonostante le polemiche della Bundesbank) il minore esborso per il collocamento di Bund grazie al Quantitative easing della Banca centrale europea. Con la legge di bilancio 2017 oltre 12 miliardi furono destinati all’accoglienza di profughi con diritto di asilo – i clandestini economici non sono contemplati. Stavolta, anche in vista delle elezioni federali del prossimo 24 settembre, il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble ha annunciato tagli fiscali e maggiori investimenti. Eppure il rapporto tra debito e pil, ora al 66 per cento, secondo il governo tornerà dopo 10 anni sotto al 60, rispettando così non solo il Fiscal compact ma anche i parametri storici di Maastricht.

 

Il motivo è semplice: grazie alla crescita e alla bassa disoccupazione (5,7 per cento) la Germania nel prossimo triennio incasserà di sole imposte 54 miliardi in più, nonostante gli sgravi. Eppure le aliquote fiscali per i cittadini tedeschi già sono più basse di quelle italiane (su 60 mila euro d’imponibile se ne paga in Italia 20.600 di tasse, in Germania 9.300; escluse le voraci addizionali locali italiane), mentre è lievemente più alto il cuneo fiscale complessivo per le aziende. Ma la causa prima di questa restituzione di soldi ai contribuenti è l’austerità che la Germania ha sì imposto all’Europa, ma ancora prima a se stessa. E i tedeschi l’hanno accettata alla stregua di un investimento. Nel 2010 il debito pubblico tedesco aveva raggiunto l’83 per cento del pil, 22 punti in più di otto anni prima. In quello stesso anno l’Italia era al 118,6, un trend migliore (13 punti oltre il 2002). Ma i tagli di spesa pubblica, la moderazione sindacale con l’entrata a regime delle riforme Hartz sul lavoro, una revisione dei precedenti sussidi sociali e la contestuale introduzione dei mini-jobs, qui spesso paragonati in toni scandalizzati ai vaucher sui quali la Cgil e la gauche hanno centrato la guerra costituzionale e mediatica, hanno ottenuto il risultato, con gli interessi.

 

E’ la dimostrazione, non la sola, che “L’austerità fa crescere”, titolo del recente saggio dell’economista Veronica De Romanis, assai contestato dal partito anti-tedesco italiano e dai sovranisti di destra e sinistra. “Non è solo una questione che riguarda la Germania. Emmanuel Macron ha vinto le elezioni promettendo 60 miliardi di tagli alla spesa pubblica, infrangendo un tabù per un paese come la Francia”, dice De Romanis. “Gli spagnoli hanno rieletto due volte Mariano Rajoy, che ha promesso di continuare con il consolidamento fiscale, mentre hanno punito Podemos che prometteva più spesa pubblica. Così l’Irlanda che continua ad essere assieme alla Spagna il paese che cresce di più. Persino in Grecia i sondaggi attuali danno Nea Demokratia, altro partito del rigore, in netto vantaggio su Syriza. Parliamo di paesi che hanno fatto sacrifici duri. Se fossero stati inutili, gli elettori non si sarebbero ribellati a chi glieli ha imposti?”. I dati Eurostat confermano l’assunto: dal 2011 al 2013 l’Irlanda è il paese europeo che ha più ridotto la spesa pubblica (quattro punti di pil), seguita da Spagna e Regno Unito. Ora gli irlandesi, come i tedeschi, oltre alla crescita incassano tagli di tasse. Certo, c’è anche una componente elettorale nel piano di Angela Merkel, peraltro ormai sicura del suo quarto mandato. Ma evidentemente non solo con la spesa pubblica si ottiene consenso, magari se ne “compra” di più con una revisione democratica, condivisa e ragionata della spesa. Anche l’Italia insegna; ma al contrario.

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