Mario Draghi (foto LaPresse)

Come la Bce può far sentire il suo peso nell'arena della Brexit

Carlo Torino

La Banca Centrale, di concerto con la Commissione Ue, apre il confronto, anche mediatico, sulle casse di compensazione

Il governatore della Banca di Francia, Villeroy de Galhau, ha detto giovedì che appoggia la visione della Commissione europea secondo la quale le attività di clearing non possono restare a Londra dopo la Brexit. Parole che fanno esplodere la polemica che da tempo cova sotto i negoziati tra Regno Unito e Unione europea. Un confronto, quello sulle casse di compensazione (questo il loro nome), tradizionalmente condotto lontano dai fragori mediatici; e non solo per ragioni di evidente complessità tecnica. Gli interessi economici in gioco sono significativi (900 milioni: il valore in contratti derivati, che ogni giorno passa tra le seriche mani degli istituti di clearing londinesi); e ciò, sinora, ha imposto riserbo, discrezione, toni misurati. Una consuetudine in certo modo infranta da un improvviso e insieme insistente attivismo, del quale si è resa protagonista la Commissione europea di concerto con la Bce.

 

Ma vediamo di comprendere bene l’essenza del contenzioso. In primo luogo: è opportuno ricordare che una cassa di compensazione svolge una fondamentale attività di contenimento del rischio di credito nel mercato, interponendosi tra le controparti in un contratto finanziario derivato. I rischi impliciti nei quali incorre un operatore di mercato sottoscrivendo tali strumenti, sono ovviamente connessi al valore del sottostante (prezzo dell’oro, petrolio, indice azionario, ecc.); ma anche all’eventualità che la controparte fallisca. La presenza di una cassa, specie se di vaste dimensioni, elimina in via generale questo rischio. Il 90 per cento delle attività di clearing in contratti derivati denominati in euro è gestito da Londra (LCH è la principale società, la quale fa capo al London stock exchange). Il settore impiega 83 mila persone nella City, secondo il Financial Times. Un dato che per un certo verso lascia intuire la centralità, e l’importanza cardinale, della City negli equilibri geofinanziari globali; ma che è destinato a rifrangersi ineluttabilmente sugli equilibri post-Brexit. E vediamo come.

 

Quali sono le richieste della Commissione? In via di principio l’esecutivo europeo ritiene irrinunciabile il diritto di esercitare una forma controllo regolamentare sull’attività delle casse di compensazione ritenute “sistemiche”; e ciò a più forte ragione una volta che il Regno Unito avrà abbandonato l’Ue. Tale delicata funzione di vigilanza verrebbe a svolgersi a opera dell’Esma (di fatto la Consob europea), con sede a Parigi. Non solo: la Bce pretenderebbe inoltre di assoggettare tali istituzioni a requisiti patrimoniali specifici e a norme, che essa stessa stabilisce, riguardanti i cosiddetti “margini”. L’ammontare che l’operatore è obbligato a versare, come garanzia, al momento della sottoscrizione. E proprio tra la banca centrale e il governo britannico esiste un precedente giudiziale: nel marzo del 2015 la Corte di giustizia europea si pronunciò in favore del Regno Unito, negando alla Bce prerogative specifiche in tema di vigilanza regolamentare sulle casse. Ma cadrebbe in errore chi scorgesse dietro alle recenti critiche di più di un esponente dell’istituzione di Francoforte ­– includendovi pure quelle del presidente Mario Draghi – solo una sterile volontà di intenti polemici; o peggio i sottintesi di un tatticismo politico volto a riportare qualche istituzione finanziaria sul suolo continentale. Vi sono, è indubbio, anche considerazioni di questo tipo; tanto più con volumi d’affari di tali dimensioni. A prevalere sono invece preoccupazioni di natura squisitamente geoeconomica. Si pensi alla singolare situazione di una cassa di compensazione che – come già accaduto nel 2010, quando a pagar dazio fu l’Italia – in una fase di choc avverso, di crisi di fiducia, imponga margini fortemente penalizzanti su contratti derivati aventi per sottostante titoli di Stato italiani, o spagnoli. Le banche dell’Eurozona si troverebbero nella spiacevole situazione di vedersi pregiudicata la possibilità di effettuare coperture (almeno in maniera efficiente) nei confronti delle esposizioni verso quei paesi; e di conseguenza sarebbero costrette a vendere per ridurre i rischi, con un impatto avverso sulle quotazioni dei titoli (e dei loro coefficienti patrimoniali).

 

Insomma, è comprensibile che le autorità europee pretendano di vigilare sulle attività di questi istituti; forme e modi possono variare – e v’è un ampio terreno normativo nel quale ricercare soluzioni condivise –, ma l’essenza della questione permane. E su questa è difficile immaginare imminenti distensioni, o compromessi politici.

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