Yoram Gutgeld

Gutgeld vuol fare da personal trainer e dietologo alla bulimica Miss Spending review

Luciano Capone

Sarebbe ingeneroso dire che è stato fatto poco, ma bisognerebbe fare molto di più

Roma. “Quando una persona si vuole mettere in forma, mangia meno ma anche cambia lo stile di vita. Se uno fa solo la dieta e non cambia stile, i chili che perde poi ritornano”, ha detto il commissario per la Spending review, Yoram Gutgeld, in apertura della prima relazione sulla revisione della spesa. Per valutare quindi i risultati della Spending review bisogna tenere conto dell’effetto di due processi, la riduzione della spesa e il cambiamento dello stile di spesa. L’attività di razionalizzazione della spesa serve a creare spazi di bilancio per raggiungere tre obiettivi: riduzione del deficit e del debito, riduzione delle tasse, riqualificazione della spesa inefficiente.

 

Partendo dalla dieta, il rapporto del governo indica in circa 30 miliardi di euro (29,9 per la precisione) le “calorie” ridotte o eliminate nel bilancio dello stato. La massa corporea del bilancio dello stato su cui intervenire è di 830 miliardi, da cui vanno sottratti 66 miliardi di spesa per interessi, 57 miliardi di spesa per investimenti, 40 miliardi di spese non aggredibili e 337 miliardi di spesa sociale (quasi esclusivamente pensioni) che l’esecutivo ritiene “carne viva”. La massa grassa aggredibile è quindi tutta in 327 miliardi di spesa corrente, composta all’incirca per metà da costo del personale e per l’altra metà da acquisti di beni e servizi. Il governo ha concentrato il suo lavoro sul 75 per cento di questa fetta di spesa corrente e in particolare in tre aree: sanità, comuni e province, sicurezza, lasciando fuori istruzione e difesa. Da qui, nel corso degli anni, sono stati progressivamente recuperati fino a 30 miliardi l’anno. In che modo? Essenzialmente da un lato con il contenimento del costo del personale – blocco del turnover (tranne nella scuola) e blocco degli aumenti salariali – dall’altro con la centralizzazione e l’aggregazione degli acquisti di beni e servizi.

 

Questi interventi, che il governo quantifica in 30 miliardi, hanno permesso di tenere sotto controllo la spesa pubblica più di quasi tutti gli altri paesi europei, che per loro fortuna e virtù non avevano gli stessi problemi di crescita e debito dell’Italia. Da questo punto di vista ha ragione il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, a dire che sono eccessive le critiche di chi dice che la Spending review non è mai stata fatta o è stata fatta male. Sono però altrettanto eccessivi i successi rivendicati dal governo, soprattutto rispetto ai due criteri indicati dal commissario alla Spending review, perché la dieta non c’è stata e gli stili di vita sono rimasti gli stessi. Innanzitutto la cifra da 30 miliardi è leggermente gonfiata da riclassificazioni di spesa: alcune voci sono state modificate o ri-denominate, pertanto a livello contabile a un loro taglio corrisponde un aumento di spesa di pari importo. Ma più in generale quasi tutto l’ammontare della Spending review è stato dirottato in altre voci di spesa: 12,7 miliardi sono stati spesi per le prestazioni previdenziali e assistenziali, 3,7 miliardi per spesa sanitaria, 3,4 miliardi per i migranti, 3 miliardi per la scuola e 1 miliardo per la sicurezza. Sono circa 24 miliardi sui 30 totali. In pratica più che di una dieta si tratta di una variazione del menù: si tagliano alcune spese e se ne aumentano altre, ritenute più produttive. Ma è sempre così? In realtà in molti casi lo stato non ha scelto un’alimentazione più salutare, continuando a preferire il “junk food”: spesa che non fa bene alla salute ma che soddisfa i desideri elettorali. Basti pensare al bonus da 500 euro per i 18enni oppure alle infornate di precari nella scuola, che non rispondono certamente ai criteri di efficienza. Questo accade perché non c’è un vaglio di qualità sulle nuove iniziative di spesa: nessuno verifica se sono più efficienti delle precedenti o di un taglio delle tasse di pari importo. Servirebbe insomma una Spending review sulle risorse ricavate dalla Spending review, qualcosa che somiglia a un cambio di stile di vita.

 

Un caso emblematico è l’aumento della spesa previdenziale e assistenziale di 12,7 miliardi, circa la metà di tutto il “tesoretto” della revisione della spesa. In questo modo il governo ha spostato risorse da capitoli di spesa “aggredibili” ad altri “non aggredibili”, le pensioni, restringendo ulteriormente i margini per il futuro su cui poter individuare i risparmi. Ma anche la definizione di “spesa non aggredibile” è tutta politica, indica la presenza di un elevato costo politico che fa battezzare come “intoccabile” la più alta spesa previdenziale d’Europa (16,5 per cento del pil).

 

Sarebbe ingeneroso dire che è stato fatto poco, ma bisognerebbe fare molto di più. Se si vogliono tagliare le tasse, mettere a posto i conti e abbattere il debito pubblico, l’unica via è tagliare la spesa pubblica. Ma su questa strada si procede lentamente, visto che per il 2017 e 2018 lo sforzo incrementale del governo è di circa 2,5 miliardi. D’altronde, nel suo intervento di elogio alla buona spesa pubblica, il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, ha ribadito che “non c’è un’aspirazione ai tagli, ma un’aspirazione all’efficienza”. Anche questa volta la dieta dello stato è rimandata a lunedì prossimo.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali