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Anti Euro a chi?

Luciano Capone

Il partito catastrofista anti moneta unica perde pezzi. Stiglitz, Cowen e gli altri. Storie di una conversione

Roma. “Vale sempre la pena di riesaminare le proprie opinioni e la mia ultima revisione è che l’euro è meglio e meno vulnerabile di quanto avessi pensato. Credo ancora che la sua creazione e successiva espansione siano stati degli errori, ma ora li vedo come errori più piccoli di prima. Molti dei costi maggiori si trovano nel passato, per cui l’euro potrebbe essere un vantaggio netto da qui in avanti”. Tyler Cowen, economista della George Mason University, dopo il voto francese ha scritto un editoriale su Bloomberg in cui in sostanza afferma che per l’euro il peggio è alle spalle e il meglio deve ancora venire. L’articolo di Cowen parte, con grande onestà intellettuale, con un’autocritica o comunque una revisione delle proprie posizioni rispetto alla moneta unica. L’economista americano era infatti, fino a poco tempo fa, molto critico sull’assetto dell’Eurozona ed era convinto che non avrebbe retto agli choc della crisi. Nel periodo più difficile dell’eurocrisi era convinto che ci sarebbe stato un break up, con un’uscita dei paesi più deboli a partire da Grecia e Portogallo e successivamente, con buona probabilità, anche Italia, Spagna e Irlanda.

 

Non siamo arrivati a quel punto, soprattutto per la supplenza politico-istituzionale della Banca centrale europea, dal “whatever it takes” di Mario Draghi al Quantitative easing, che ha permesso all’Italia di risparmiare oltre 10 miliardi sul costo per il servizio del debito pubblico. Quindi la moneta comune è cambiata, non è la stessa del 2011, ma allo stesso tempo è mutato l’atteggiamento di tanti economisti, soprattutto americani, che ritenevano la struttura dell’euro insostenibile e il suo smantellamento inevitabile e, per certi versi, auspicabile. Cowen non è il solo ad avere avuto ripensamenti sulla tenuta dell’euro. Come lui hanno fatto una parziale revisione, pur non così esplicita, altri economisti storicamente euro critici come il conservatore Martin Feldstein e i premi Nobel progressisti Paul Krugman e Joseph Stiglitz.

 

Cosa c’è di nuovo? Per Cowen intanto è cambiato il panorama geopolitico, ora molto più favorevole all’euro, in primo luogo per i risultati del ciclo elettorale che nel continente ha visto perdenti le forze populiste e anti europeiste. Pochi giorni fa in Francia, due mesi fa in Olanda, l’anno scorso in Spagna e a breve in Germania gli elettori hanno scelto governi favorevoli al progetto europeo. Inoltre i paesi che hanno dovuto ristrutturare le proprie economie attraverso misure di austerity e che erano maggiormente a rischio “exit”, stanno tornando a crescere anche a tassi sostenuti (si pensi alla Spagna). Infine, il nuovo contesto del commercio internazionale, sta riducendo i benefici dei tassi di cambio flessibili (ma questa non è una novità): le catene globali del valore e i mercati sempre più integrati rendono le svalutazioni competitive sempre meno efficaci per guadagnare punti di export. Restano ancora tante criticità, ad esempio l’elevato debito pubblico dell’Italia e la fragilità del suo sistema bancario, e forse sarebbe stato meglio che paesi come la Grecia non fossero mai entrati, ma – dice Cowen – “gli elettori francesi domenica hanno riconosciuto ciò che anche gli economisti dovrebbero vedere: i migliori giorni dell’euro probabilmente devono ancora venire”.

 

Martin Feldstein, economista ad Harvard ed ex consigliere di Ronald Reagan, da sempre considera l’euro un progetto fallimentare e su questo non ha cambiato idea. Ma quando recentemente è intervenuto sul Sole 24 Ore nel dibattito “Euro sì o no”, anche il più feroce critico della moneta unica, ha detto che per l’Italia uscire non è proprio una buona idea: si abbatterebbero i salari e si guadagnerebbe un vantaggio competitivo, ma le famiglie e le imprese continuerebbero ad avere debiti in euro che “crescerebbero più dei loro guadagni”: “Se gli italiani avessero saputo che cosa sarebbe successo dopo l’introduzione dell’euro, forse avrebbero optato per rimanerne fuori. Ma la decisione di andarsene ora è complicata”.

 

Allo stesso modo si sono espressi i progressisti Paul Krugman e Joseph Stiglitz, da sempre feroci critici dell’euro e delle politiche di austerity. Krugman negli anni ha annunciato l’imminente break up dell’euro almeno una decina di volte, nel caso della Grecia ha consigliato l’exit, e per questo insieme a Stiglitz è diventato un simbolo da sventolare per i partiti “no euro” di tutta Europa. Ma in occasione delle elezioni francesi, l’editorialista del New York Times ha scritto che “l’uscita unilaterale dall’euro danneggerebbe l’economia francese” perché “i costi di transizione sarebbero enormi”. Allo stesso modo Stiglitz, che da anni vagheggia ipotesi di dissoluzione dell’euro e creazione di due monete, ha scritto insieme ad altri 24 Nobel per l’economia una lettera apparsa sul Monde contro le politiche anti europeiste di Marine Le Pen: “C’è una grande differenza tra la scelta di non aderire all’euro dall’inizio e uscirne dopo averlo adottato”. Nel caso dei due economisti progressisti probabilmente è maturata la consapevolezza che non esiste un’uscita “da sinistra” dall’euro: a guidare un processo di dissoluzione saranno le forze sovraniste, xenofobe e protezioniste, con tutte le conseguenze che ciò comporta per la stabilità politica e il benessere economico. E questo gli elettori europei finora l’hanno capito prima di molti economisti americani.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali