Murales dell'artista Bansky. Foto LaPresse/PA

Da Tsipras alla Le Pen, quando il gioco si fa duro i No-Euro smettono di giocare

Luciano Capone

L’uscita dall’euro, la soluzione miracolistica che tutte le forze politiche anti sistema propongono per uscire dalla crisi, come un miraggio si smaterializza quanto più ci si avvicina

Roma. E’ quando il gioco si fa duro che i No-euro cominciano ad ammorbidirsi. Le forze anti sistema cavalcano il malcontento e raccolgono consensi con proposte che indicano una fuga dalla realtà. Ma la realtà ha dei muri molto alti e solidi, così tutti gli eterodossi più radicali (almeno quelli con un briciolo di buon senso) rallentano e mettono la retromarcia prima di andare a sbattere.

    

Dopo mesi di lunghe negoziazioni, la Grecia ha sottoscritto la scorsa settimana un nuovo accordo con i creditori dell’area euro del Fondo monetario internazionale. Ancora una volta Atene ha accettato le principali condizioni richieste in cambio del prosieguo del piano di assistenza finanziaria da 86 miliardi in tre anni: taglio delle pensioni e aumento delle tasse. In pratica il governo di Alexis Tsipras ha ceduto a nuove misure di austerity, pari a circa 2 punti di pil che prevedono oltre alla riduzione della spesa pensionistica e all’aumento della soglia di esenzione fiscale, una riforma del mercato del lavoro e una velocizzazione delle privatizzazioni. Non è una resa totale, perché in cambio del riequilibrio dei conti pubblici, oltre alla tranche necessaria per pagare i 7 miliardi di euro di debiti in scadenza a luglio, la Grecia ottiene una certa flessibilità di spesa e l’inizio di una discussione sull’alleggerimento del debito. Ma siamo in una logica completamente diversa da quella che ha ispirato l’ascesa politica e le promesse elettorali di Alexis Tsipras. Nessun nuovo memorandum con la Troika, basta privatizzazioni, fine dell’austerity, aumento della spesa pubblica, ripudio del debito. Tutto il contrario. Dopo una prima fase in cui Tsipras e l’ex ministro Yanis Varoufakis hanno scelto la linea dura, chiedendo persino i danni di guerra alla Germania, dopo aver accompagnato il popolo greco sull’orlo dell’abisso dell’uscita dall’euro, il governo della sinistra radicale ha fatto marcia indietro, ha ripudiato il programma elettorale e un referendum e ha siglato un nuovo memorandum.

     

Una parabola simile alla sinistra radicale di Tsipras è quella della destra radicale di Marine Le Pen, che ancor prima del voto aveva ammorbidito le sue posizioni contro l’euro. Non più un’uscita immediata dall’Eurozona, prospettiva che non piaceva a due terzi degli elettori e neppure un referendum, forse una negoziazione con i partner europei dopo le elezioni del 2018. Ma di certo l’uscita dall’euro non è più stata “precondizione per ogni altra politica economica” durante l'ultima fase della campagna elettorale. 

    

L’uscita dall’euro, la soluzione miracolistica che tutte le forze politiche anti sistema propongono per uscire dalla crisi, come un miraggio si smaterializza quanto più ci si avvicina. I costi sono talmente elevati che persino le forze più populiste, per niente abituate a ragionare in termini di costo opportunità, mancano del coraggio di portare fino il fondo le proprie proposte. Alla resa dei conti anche gli economisti come il Nobel Joseph Stiglitz, e altri che hanno occhieggiato all’uscita dall’euro come mossa risolutiva, ritornano sui propri passi e firmano appelli per dire che “c’è una grande differenza tra non aderire all’euro sin dall’inizio e uscire dopo averlo adottato”.

    

In questo senso è surreale, ma rivelatore, l’esito del dibattito “Euro sì o no” avviato dal Sole 24 Ore. Tra i tanti interventi di economisti, europei e americani, tutti con un diverso background culturale, pubblicati dal quotidiano economico non c’è n’è uno favorevole all’uscita dall’Eurozona. John Cochrane dice che “L’euro non è perfetto ma non è male”, Charles Wyplosz che “L’Eurozona è un esperimento inedito che evolverà” e Barry Eichengreen che “Nella storia non c’è retromarcia”. Persino Martin Feldstein, uno dei più grandi critici dell’euro, ha scritto che “la decisione di andarsene ora è complicata”.

     

Dall’esito potrebbe sembrare quindi che la discussione “Euro sì o no” sia inutile. In verità è utilissimo perché mostra che, fuori dalla bolla della propaganda politica, nella realtà delle cose è un dibattito che non esiste. Solo che a un certo punto dovremmo smettere di parlarne per lasciare spazio ai problemi reali.

Di più su questi argomenti:
  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali