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Processare la deriva referendaria dei sindacati

Renzo Rosati

Gli accordi aziendali vanno sostenuti. Cosa dice la condanna della Cgil sul caso Almaviva

Roma. Il tribunale del lavoro di Roma ha condannato la Cgil per i 1.666 licenziamenti alla Almaviva di Roma, alla vigilia di Natale scorso, a differenza dell’altro call center di Napoli dove l’accordo tra azienda e sindacati ha consentito il mantenimento di 820 posti, tutti a tempo indeterminato. La multa inflitta alla confederazione è simbolica – 3 mila euro – meno le motivazioni della sentenza. Che ricostruendo le fasi della vertenza addebita la responsabilità del fallimento allo scarso impegno dei vertici sindacali che per due volte, il 27 giugno e il 9 settembre, “non si sono neppure presentati agli incontri pur essendosi impegnati a raggiungere un accordo sulla gestione della qualità, della produttività e dell’analisi del contratto”. Finché il 22 dicembre, ultima notte utile, sono emersi “contratti gravissimi” tra i delegati della rappresentanza sindacale unitaria Cgil, preoccupati di perdere consensi politici a favore delle frange arrabbiate, i quali “non avrebbero neppure chiesto l’interruzione delle trattative per la consultazione dei lavoratori” (che si svolse cinque giorni oltre i termini con 590 voti favorevoli e 473 contrari). Per mesi Susanna Camusso aveva attaccato pesantemente azienda e governo, accusando Almaviva “di usare i lavoratori come scudi umani”. Invece “la scelta di trattare-non trattare è il primo virus che ha fatto morire i 1.666 posti a Roma e bruciato 40-50 milioni di stipendi, la più grande distruzione di lavoro degli ultimi 25 anni”. Da tutto questo emerge una verità opposta a quella fornita abitualmente dalla Camusso e dai dirigenti Cgil come Maurizio Landini, sia a livello politico sia nei talk show; mentre la segreteria laziale ha poi chiesto di riaprire le trattative “perché il governo deve fare luce sui troppi lati oscuri”. Ma soprattutto salta fuori l’uso inconsapevole del referendum da parte del sindacato.

 

Il caso Almaviva è stato spesso paragonato ad Alitalia, con le confederazioni incapaci di difendere un accordo da loro firmato e i vertici nazionali, soprattutto della Cgil, che hanno mostrato di non saper controllare i delegati impegnati a far concorrenza ai sindacalisti autonomi. Sul Foglio del 27 aprile il segretario generale della Fim-Cisl, Marco Bentivogli, ha attaccato frontalmente l’idea che “la crisi di fiducia delle organizzazioni di rappresentanza e dei partiti si risolva con la scorciatoia della democrazia diretta, saldando le due culture entrambe populiste dei 5 stelle con la parte più ideologica del sindacato. Eppure votare su qualcosa di cui troppo spesso sfugge totalmente il contenuto è pericoloso”. Ovvero, non ci si può lamentare della “disintermediazione” (critica sempre rivolta al governo di Matteo Renzi), se poi non si è in grado di prendersi le responsabilità della democrazia rappresentativa. E ora che il cda di Alitalia ha dato (ieri) via libera al commissariamento, sempre il sindacato prova fuori tempo massimo a riportare indietro gli orologi, magari strizzando l’occhio (Camusso) alla nazionalizzazione. Ma proprio la Cgil ha cavalcato abbondantemente l’onda della democrazia di piazza, schierandosi con il No nel referendum sulla riforma costituzionale e promuovendo quello contro i voucher. Senza dimenticare i ricorsi di costituzionalità per gli accordi aziendali di Sergio Marchionne a Pomigliano e Melfi. Certo, anche la Union of auto workers, il sindacato dell’industria automobilistica americana, ha indetto ad ottobre 2015 il referendum sugli accordi con Chrysler e le altre big di Detroit: ma tra la prima bocciatura e il sì della settimana successiva, i dirigenti Uaw hanno trattato a oltranza, pragmaticamente, per ottenere condizioni più favorevoli.

 

Qual è la differenza tra sindacalismo Usa e Cgil? Questa: nel ’79 la Uaw aveva 1,5 milioni di iscritti, oggi 380 mila. I pensionati che rappresenta sono 600 mila, tutti del settore auto. In un paese di 322 milioni di persone. La Cgil ha 5,6 milioni di tessere (anch’esse in calo) delle quali 2,6 milioni sono pensionati non necessariamente ex dipendenti. Su 60 milioni di abitanti. In altri termini i dirigenti sindacali americani se sbagliano ci rimettono il loro posto. Se sbagliano quelli italiani, saltano i posti degli altri.

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