Modello Ilva per Alitalia

Alberto Brambilla

S’avanza un nuovo canovaccio per la compagnia con un commissario venditore. Rischi e opportunità

Roma. La politica italiana ama i grandi piani di salvataggio per i lavoratori colpiti da crisi aziendali, ma gli italiani odiano doverne pagare il costo. Negli ultimi quattro anni il Partito democratico ha cercato di districarsi in questa dicotomia offrendo l’illusione di mantenere in attività siti produttivi in estrema sofferenza, come l’acciaieria Ilva di Taranto, con la promessa di cederla in blocco al migliore offerente in seguito alle discutibili curatele dei commissari nominati dal governo. Lo stesso canovaccio s’avanza per la compagnia aerea Alitalia che rischia un collasso umiliante dopo che due terzi dei 12.500 dipendenti hanno respinto l’accordo tra sindacati e azienda, fatto di tagli di stipendi e personale, prodromico a un aumento di capitale da 2 miliardi di euro, il più grande mai realizzato dalla privatizzazione del 2008. Martedì prossimo l’Assemblea dei soci Alitalia, partecipata al 49 per cento da Etihad e al 51 una compagine di imprese e banche italiane, è chiamata a chiedere l’amministrazione straordinaria al governo che nominerà un commissario col mandato di cercare un investitore in sei mesi, durante i quali l’operatività del primo vettore sarà assicurata da un prestito pubblico da 300 milioni di euro per affrontare la stagione cruciale estiva.

 

Se – come risulta al Foglio – l’intenzione governativa è replicare il modus operandi dell’acciaieria di Taranto sarà un’opportunità per imparare dagli errori commessi. Ilva è precipitata in una complessa vicenda giudiziaria nell’estate 2012 per la quale si attende la fine di un processo penale per danni ambientali cominciato a tentoni nell’autunno scorso. Il commissariamento aveva preceduto l’amministrazione straordinaria nel giugno 2013, quando la prima acciaieria a ciclo integrato d’Europa era in utile in quanto i proprietari espropriati, i Riva, famiglia di acciaieri di rango europeo che ora si sta concentrando sulle loro attività estere, la sfruttavano al massimo. Dopo il commissariamento ha cominciato a perdere a bocca di barile accumulando 3 miliardi di debiti – complice la fuga della maggior parte dei clienti in seguito ai sequestri fatali ordinati dall’autorità giudiziaria – ed è stata posta in procedura fallimentare a gennaio 2015. Da allora i commissari più che perseguire l’obiettivo di una gestione accorta – non sono rari incidenti dovuti all’incuria degli impianti – si sono concentrati sulla ricerca di un investitore. Ilva ha da offrire soprattutto la sua posizione al centro del mediterraneo. Dopo un primo tentativo di vendita andato a vuoto, quest’anno hanno manifestato interesse ArcelorMittal, colosso europeo che vuole consolidare la sua posizione nel continente, e Jsw Steel, produttore indiano che vuole entrare in Europa, appoggiato da una cordata italiana che comprende la Cassa depositi e prestiti. Ma l’assegnazione è stata più volte posticipata.

 

Alitalia è un caso disperato. Dagli anni ’70 è costata ai contribuenti circa 7 miliardi, ma raramente ha chiuso il bilancio annuale in utile. Il 76,9 per cento degli italiani interpellati da Index Research ritiene che vada lasciata fallire. “Nazionalizzarla significa nazionalizzare i debiti, la compagnia non è sostenibile”, dice Michele Carretta, analista finanziario. Alitalia non è in grado di fare profitti perché due terzi della flotta di 125 aerei è in leasing e deve continuare a pagarne l’affitto per volare. Inoltre la sua strategia è strabica: è concentrata sui voli domestici, poco profittevoli, e da tempo è sguarnita su quelli internazionali, dove si guadagna. Un problema che si trascina dal Piano Fenice contestuale alla privatizzazione del 2008. “Si ostinano a fare volare aerei vuoti sui cieli italiani: se fosse stata una compagnia mineraria ai tempi dell’epopea del Klondike sarebbe riuscita a perdere” , dice Ugo Arrigo, docente di Finanza pubblica dell’Università Bicocca. “L’unica cosa che può offrire sono i suoi 22-23 milioni di passeggeri annui. Un commissario dovrebbe avere come obiettivo quello di continuare a produrre e di non fare fuggire i clienti, un ragioniere o un giurista-liquidatore non basterebbe”.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.