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La disoccupazione giovanile è un feticcio decisamente sopravvalutato. Numeri

Stefano Cingolani

In punta di statistica i giovani disoccupati sono circa mezzo milione, pari all’8,9 per cento (non il 35,4 per cento). Perché? Sono tutti a scuola

Roma. Giovani disoccupati, spettri che popolano le notti di politici ed economisti, incubi di padri edonisti che hanno scaricato sui figli la loro crapula. Ma è proprio così? E quanti sono per davvero? Preziosa è la statistica se non fa velo alla realtà. Dice l’Istat che il lieve calo della disoccupazione a febbraio (meno 0,3 per cento) ha favorito soprattutto i giovani tra i 15 e i 24 anni (meno 1,7 per cento), tanto che la quota di senza lavoro in questa fascia d’età è la più bassa dal 2012. Certo, se siamo ancora al 35,4 per cento, la situazione resta drammatica: oltre un terzo dei ragazzi si gira i pollici in attesa di tempi migliori. Ma le cose stanno proprio così?

 

A febbraio c’erano 5 milioni 885 mila giovani tra i 15 e i 24 anni: 966 mila sono occupati, 525 mila sono disoccupati e 4 milioni 394 mila risultano inattivi. Solo che la stragrande maggioranza di loro è a scuola o all’università. Può darsi che le aule siano diventate un bivacco di sfaccendati, però chi le frequenta non può essere classificato “inattivo”. Dunque, i giovani disoccupati sono circa mezzo milione, pari all’8,9 per cento. Una quota più alta della media europea, ma tra mezzo milione e due milioni c’è una bella differenza. Vincenzo Galasso, ordinario di Economia alla Bocconi di Milano, ha spiegato al Sole 24 Ore che l’insistenza sui giovani dai 15 ai 24 anni può distorcere la percezione su qualità e quantità delle occasioni lavorative in Italia: “Ogni volta che ci vengono forniti dati sull’occupazione in questa fascia d’età, ho l’impressione che si stia guardando ai numeri sbagliati. E’ come se fossimo rimasti indietro di trent’anni”.

E va bene, scrivono i giornali, “ma molti il lavoro non lo cercano più”, aumenta l’esercito dei Neet (Not in education, employment or training), insomma chi non fa nulla. Per capire le contraddizioni di un mercato del lavoro in cui domanda e offerta non s’incontrano, bisogna inforcare lenti micro e penetrare la coltre di cifre. Come mai aumentano gli inattivi e s’allunga anche la lista dei lavori inevasi? Proprio mentre scriviamo, ci sono oltre 42 mila offerte secondo face4job.com, il portale italiano che con un algoritmo calcola le cosiddette vacancy setacciando gli annunci delle aziende.

 

Lo scorso anno tra gennaio e luglio ha censito 800 mila occasioni professionali, ma c’è l’effetto degli impieghi stagionali che s’impennano d’estate. Si dirà che sono lavori pessimi e mal pagati, magari in leu, la valuta rumena, come è accaduto nell’Oltrepò pavese, ma non è così, ci sono fior di aziende private e pubbliche, italiane e straniere, ospedali e regioni, chiunque può verificarlo, basta un clic. Nel campo del software, per esempio, oltre un terzo delle domande resta inevaso, secondo le indagini Unioncamere, in particolare mancano sviluppatori di linguaggi cibernetici, tipico mestiere da millennial. La Fondazione consulenti del lavoro, con una certa regolarità compie indagini dalle quali emerge di tutto, parrucchieri e informatici, elettricisti o esperti della vendita. In cima ai posti vacanti troviamo gli infermieri (comprensibile dato l’invecchiamento della popolazione), più sorprendente è che subito dopo vengano panettieri e pizzaioli.

 

Il limite dell’orario  L’Unione panificatori della Confcommercio romana ha lanciato l’allarme fin dal 2011. Nella capitale esistono più di seicento forni, e chi più chi meno lamenta la mancanza di personale (mediamente un forno impiega da tre a quattro persone), nonostante il salario che può oscillare dai 2 mila ai 3 mila euro al mese, a seconda del livello professionale, un po’ come avviene per i cuochi. E’ un mestiere pulito, ma non attira i giovani. Il limite è l’orario. Un tempo si cominciava a mezzanotte oggi con le macchine moderne si può arrivare anche alle 3 e mezza, ma in ogni caso è incompatibile con la movida. E i pizzaioli?Qui è il salario più che l’orario a tenere lontani i giovani. Poi ci si lamenta perché sono in maggioranza gli egiziani. Più complesso il caso degli infermieri, un mestiere che richiede dedizione, non solo professionalità. Nell’androne del Policlino Gemelli si possono vedere affissi annunci per operatori della Sanità. Ma c’è carenza ovunque, a Milano come a Cuneo, a L’Aquila, a Parma, a Carmagnola, a Brescia.

 

Molti sono specializzati, da sala operatoria, molti servono per l’assistenza domiciliare, e in questo caso sono per lo più contratti a tempo indeterminato. Un viaggio nei lavori rifiutati ci farebbe scoprire quel paese che il circo politico-mediatico non racconta. Che cosa fanno i Neet, campano di espedienti e paghette? Anche questo dischiude un universo spesso ignorato, dentro una “Italia rentier che non investe nel proprio futuro”, come ha scritto il Censis. La Banca d’Italia ha calcolato che tra il 1995 e il 2014 la ricchezza delle famiglie è salita da 4,4 a 5,4 volte il prodotto lordo (da 4 mila 181 a 8 mila 730 miliardi di euro). In mezzo c’è stato il passaggio alla moneta unica la quale, a quanto pare, non ci ha rovinato. Come si spiega? Con il mattone, il bene rifugio degli italiani. Terreni e fabbricati valevano 2 mila 662 miliardi a metà anni Novanta e nel 2014 erano saliti a 5 mila 848 miliardi, in calo rispetto al picco di 6 mila 250 miliardi del 2011, ma pur sempre il doppio. La crisi ha tagliato i patrimoni reali e consumato i risparmi, tuttavia c’è ancora abbastanza grasso per alimentare i figli senza lavoro, giovani che non saranno più poveri dei loro genitori (altro mito mediatico-politico), perché quei patrimoni passeranno nelle loro mani. Non solo, l’Italia dei rentier produce anche reddito, si pensi al vastissimo fenomeno delle seconde case trasformate in bed&breakfast (non sempre in regola con il fisco). La rendita basta a comprare l’ultimo Suv o a farsi una bella vacanza ai tropici. Certo, gli espedienti consentono di galleggiare non di crescere, quella ricchezza verrà presto o tardi consumata. E qui entra in ballo la produttività, la demografia, la politica fiscale. Tuttavia, la chiave di volta s’annida nei valori che determinano i comportamenti. Per sfuggire ai luoghi comuni, è sempre utile confrontarsi con i vicini. Nel nord Europa liceali e universitari, una volta godute le tre-quattro settimane di vacanze, vanno a lavorare finché non cominciano le lezioni. E’ la norma, una questione soprattutto di disciplina, un rito preparatorio. In Italia è una eccezione, forse aveva ragione l’ex ministro del Lavoro, Elsa Fornero, a dire che i ragazzi sono “choosy”, schizzinosi. A noi piace così; dobbiamo cedere la sovranità anche sulle ferie? Non sia mai, ma allora perché ce la prendiamo con Angela Merkel?

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