Ribellarsi al mercato del malumore

Claudio Cerasa

Siamo davvero un paese corrotto, depresso, condannato alla paralisi eterna? Col cavolo. Appello (con molti dati e buonumore) per evitare che la politica del realismo accetti il terreno suicida imposto dai professionisti dello sfascio

Il mercato del malumore (copyright Salvatore Merlo) è uno dei settori più importanti dell’industria culturale italiana e chiunque lavori nel mondo dell’editoria o nel mondo della televisione o nel mondo della politica sa bene che una cattiva notizia trova spazio sulle prime pagine dei giornali con più facilità rispetto a una buona notizia. Il mercato del malumore è costretto a valorizzare le cattive notizie a discapito delle buone notizie, non perché le buone notizie non le vede ma perché vive come intrappolato in una gabbia: se si smette di alimentare il mercato del malumore si rischia di far venir meno la domanda di malumore e se viene meno la domanda di malumore il mercato del malumore non esisterebbe più. E si capisce che con il malumore sostituito dal buonumore sarebbe difficile piazzare in prima serata libri sulla casta dei corrotti d’Italia (o sui vampiri delle pensioni d’oro che ciucciano denaro allo stato come se fossero delle sanguisughe) e si capisce che sarebbe quasi obbligatorio cambiare persino nomi a diversi talk-show (“L’Arena” diventerebbe l’“Auditorium”, “PiazzaPulita” diventerebbe “La Piazza è splendida”, “La gabbia” dovrebbe trasformarsi in “Open Space”, “Le Iene” diventerebbe “I pulcini”, “L’aria che tira” dovrebbe ammettere che in fondo “L’Aria che tira non è così male”, e così via).

 

L’ingigantimento del mercato del malumore ha certamente arricchito qualche giornalista apocalittico e ha fatto la fortuna di qualche magistrato in carriera ma non ha portato particolari benefici ai talk-show (alcuni dei quali registrano ascolti da monoscopio) e ha avuto per di più un effetto disastroso sulla percezione che gran parte degli italiani ha del proprio paese. Domanda: siamo davvero un paese irrimediabilmente corrotto, fatalmente depresso, tendenzialmente allo stremo, povero, senza speranza, senza prospettiva, senza futuro, condannato alla paralisi eterna? I professionisti del malumore, che inevitabilmente e chissà quanto involontariamente finiscono per essere i migliori alleati dei portavoce del malumore, tendono a rappresentare l’Italia utilizzando questa unica lente di ingrandimento. Eppure, leggendo l’elenco che stiamo per proporvi, potrete facilmente capire che la vera fake news sull’Italia è considerare l’Italia un paese allo stremo, povero, senza speranza, depresso, condannato alla paralisi eterna, schiavo di un’Europa matrigna che la conduce su una strada sbagliata e suicida. Non è così. Cominciamo? Massì, cominciamo. Il pil dell’Italia cresce. Meno della media europea (1,7) ma comunque cresce e nel 2017 dovrebbe crescere dell’1,1 per cento (con le stime riviste al rialzo dal ministero dell’Economia).

 

Le banche italiane non sono genericamente un bubbone pronto a esplodere, ma sono suddivise come in tutta Europa in banche che funzionano bene (Intesa San Paolo è ai massimi storici, Unicredit ha appena messo a segno l’aumento di capitale più importante della storia borsistica d’Italia) e altre che con fatica stanno provando a risollevarsi (Mps e le banche venete). Le mitiche sofferenze bancarie hanno toccato il minimo storico da due anni a questa parte e a fine gennaio 2017 hanno registrato la soglia più bassa da giugno 2014 (77,8 miliardi), segnando una diminuzione di valore del 6,9 per cento rispetto a un anno prima. I tassi pagati dalle imprese sono ai minimi degli ultimi anni (1,6 in media a gennaio contro 1,5 di dicembre). Le immatricolazioni di auto sono aumentate del 3 per cento a febbraio e nello stesso mese il mercato di auto nuove in Italia è cresciuto del 6,2 per cento, con 183.777 vetture immatricolate rispetto alle 173.098 dello stesso mese del 2016 (facendo segnare il trentatreesimo incremento mensile consecutivo, nonostante l’aumento del prezzo dei carburanti e la risalita dell’inflazione).

 

In gennaio l’export italiano è aumentato, a prezzi costanti, dello 0,2 per cento rispetto a dicembre e viaggia ormai a un ritmo del 2,3 per cento superiore alla media del quarto trimestre 2016. Le missioni quasi impossibili come la vendita dell’Ilva e il passaggio in Italia del Tap (Gasdotto Trans-Adriatico) stanno diventando realtà e nonostante scandali, opposizioni, sprechi, campagne contrarie e forsennate, alla fine il Tap ci sarà, così come ci sarà la Tav e così come ci saranno le Triv. Il mercato immobiliare italiano – leggete meno libri sui vitalizi e più rapporti dell’Agenzia delle entrate – “continua a crescere a tassi positivi anche negli ultimi tre mesi del 2016 facendo segnare una variazione tendenziale riferita al totale delle compravendite pari a un più 16,4 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente”, e non accadeva de sei anni che gli immobili compravenduti nel corso di dodici mesi superassero il milione di unità (1.141.012 nel 2016, 177 mila in più del 2015, con un incremento del 18,4 per cento).

 

Le compravendite di abitazioni compiute nel 2016 da persone fisiche attraverso un mutuo – segnala sempre l’Agenzia delle entrate – mostrano rispetto al 2015 un tasso di crescita pari al 27,3 per cento e contestualmente a dicembre 2016 (dati osservatorio Crif) le richieste di mutui o surroghe hanno fatto registrare un incremento pari al 21,3 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. I dati Istat sul lavoro dicono che una ripresa dell’occupazione, seppur lenta, esiste e a gennaio gli occupati sono cresciuti di 30.000 unità rispetto a dicembre e di 236.000 unità rispetto al dicembre 2016. A Milano la Sea, società di gestione degli aeroporti di Malpensa e Linate, ha fatto registrare numeri da record, con una crescita del traffico aereo dell’11,9 per cento e un utile netto pari a un +11,7 per cento rispetto all’anno precedente, e lo stesso vale per l’aeroporto di Fiumicino che nel 2016 ha visto transitare 41,7 milioni di passeggeri, record assoluto nella storia dello scalo, con una crescita del 3,3 per cento rispetto al 2015. E non finisce qui.

 

Secondo Confindustria, che pure aveva previsto un tracollo dell’economia italiana in caso di vittoria del No al referendum costituzionale, “il 2017 si candida a diventare il primo anno dal 2011 in cui le previsioni saranno non solo confermate ma addirittura ritoccate all’insù”. E in effetti l’Europa matrigna che “starebbe portando al suicidio i paesi dell’area Euro” offre segnali incoraggianti (non è un caso se finora i populisti hanno perso in Spagna, in Olanda, in Bulgaria, in Austria, in Islanda, speriamo anche in Francia) e cresce più degli Stati Uniti (1,7 contro 1,6) facendo registrare un tasso di disoccupazione ai livelli più bassi dal 2009. Come avrete capito, con queste notizie fuori dal mondo del drammaticamente corretto, potremmo andare avanti per ore, per trovare dati capaci di stimolare buonumore e controbilanciare il mercato del malumore.

 

Ma per capire le ragioni per cui nonostante tutto l’Italia va (come diceva Longanesi, “L’Italia è una cosa misteriosa che va, e non se ne sa il perché”) bisogna partire da qui, da questi numeri. Senza dimenticare naturalmente i dati negativi – il tasso di disoccupazione giovanile al 37,9 per cento, la pressione fiscale al 42,9 per cento, di poco sotto dal suo massimo storico del 43,6 per cento toccato nel 2013, il valore aggiunto del settore delle costruzioni in calo di 6,6 punti percentuali negli ultimi tre anni – ma senza mettere da parte neppure un altro dato importante da ricordare per capire il futuro dell’Italia. Gli investitori stranieri (chiedere a Pimco e Goldman Sachs che potrebbero spostare presto alcune delle sedi da Londra a Milano) considerano ormai il nostro paese all’altezza dei grandi d’Europa, sia per quanto riguarda il nuovo regime fiscale per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia sia per quanto riguarda il mercato del lavoro (Italia batte Francia 6-0) sia per quanto riguarda la tassazione alle imprese.

 

Ciò che invece costituisce il vero punto fragile del nostro sistema economico, che tende a disincentivare gli investitori stranieri ad arrivare in Italia, non sono il numero di vitalizi e l’eccesso di auto blu ma sono elementi legati a due fattori: da un lato la frammentazione del sistema politico italiano e dall’altro le ganasce regolatorie. La frammentazione del sistema politico non la si potrà risolvere facilmente (c’era il referendum, ma è andata come sappiamo) mentre la riduzione dello spazio discrezionale che ha il sistema burocratico italiano la si potrebbe tentare seguendo un modello simile a quello adottato nel 2012 dal governo Monti, il quale con una buona legge che ha limitato la discrezionalità del giudice nel disporre la reintegrazione nel posto di lavoro per i casi di controversie in materia di licenziamenti e di contratti a termine ha fatto registrare in quattro anni (2012-2016) un meno 69 per cento di procedimenti giudiziali su questo genere di contenziosi. Mica male, no? Imporre un mercato del buonumore – in un contesto culturalmente compromesso in cui i professionisti del malumore tendono ad alimentare la bolla del tafazzismo, necessaria per non far crollare la domanda di malumore – non è facile e può apparire quasi un’operazione spericolata.

 

Eppure, come ha scritto ieri sul Les Echos il corrispondente italiano Olivier Tosseri, l’Italia sarà anche il malato d’Europa ma lo è rispetto a un’Europa che corre come non mai. E lo è in un contesto non da Repubblica di Weimar ma in cui, scrive Les Echos, “il tasso di disoccupazione si è stabilizzato, le famiglie riprendono a consumare e le finanze pubbliche sono leggermente migliorate” – e in cui, aggiungiamo noi, nel 2016 il risparmio medio degli italiani (67 mila euro pro capite) ha raggiunto il livello più alto del mondo (del mondo) superando quota 4 mila miliardi di euro. L’Italia può funzionare meglio, ovviamente, ma per farla funzionare peggio la strada migliore è fare quello che in molti si ostinano a fare oggi: imporre un grande palinsesto del malumore, confondere le priorità del paese e portare la politica a scendere sullo stesso terreno dei professionisti dello sfascio, rinunciando così a far giocare gli sfascisti sull’unico terreno sul quale non toccherebbero palla: non il terreno dell’ottimismo, ma semplicemente quello del realismo.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.