Il Bezos Center for Innovation al Mohai di Seattle

L'innovazione che cambia l'economia

Michele Masneri

Come si trasformano le città e il lavoro. Dai robot che sostituiscono gli uomini allo scontro taxi-Uber, fino al sessismo nella Silicon Valley. Intervista ad Enrico Moretti, l'economista (italiano) più dibattuto in America 

San Francisco. Ci sono due Americhe, una tecnologica e avanzata, dove si guadagna bene e si spende tanto, e sta soprattutto qui a San Francisco, e poi a Seattle, a New York e in qualche altro posto della bolla liberal sulle due coste; e poi c’è la seconda America che è rimasta indietro, fatta di tanti posti del Midwest, i “flyover” dove si vola sopra e non ci si ferma, e soffre la disoccupazione, e vota di conseguenza. Simbolo: Detroit, la decotta capitale dell’auto.

 

Che analisi banale, oggi. Nel 2012, quando uscì La nuova geografia del lavoro, per niente. Librone di trecento pagine, edito in Italia da Mondadori, opera di Enrico Moretti, professore a Berkeley, forse l’economista in America oggi più citato e dibattuto: continuamente tirato in ballo, dal Wall Street Journal al New York Times. L’ex presidente Obama lo convocò a lungo. Anche Renzi, si parva licet, lo ha incontrato nell’ultimo viaggio in Silicon Valley. In fondo alla scala sociale, anche noi lo incontriamo un pomeriggio a San Francisco, in un coffee shop in via di gentrificazione gestito da una signora russa simpatica (Moretti, in pieno stile sanfranciscano, ci dice che spesso lavora al caffè, come tutti noi, e ha i suoi preferiti, ci confrontiamo. Ha quarantotto anni, vive qui da un bel po’, con la moglie e il figlio).

 

Il nostro paese “forte in settori che più hanno subìto il declino a causa della globalizzazione e della innovazione”

Gli si chiede subito: l’Italia è la Detroit d’Europa? “Non ancora”, dice; “però ha un problema di struttura industriale vecchia. E’ forte in settori che più hanno subìto il declino a causa della globalizzazione e dell’innovazione”. Ma globalizzazione e innovazione sono necessariamente negative? “No, al contrario, potrebbero essere molto positive, dato anche il capitale umano che contraddistingue il nostro paese. E non è che l’Italia deve copiare la Silicon Valley, però chiaramente nei prossimi venti-trent’anni i posti di lavoro verranno da produzioni ad alta innovazione, cioè produzioni non facilmente delocalizzabili”.

 

Il manifatturiero è morto? “Il manifatturiero continua a crescere. In realtà, c’è un grande paradosso su questo tema. Anche in America. Il settore industriale è raddoppiato dal 1970 a oggi e continua a crescere. Il problema è l’occupazione. Con l’aumento della produttività calano i lavoratori; negli anni Settanta un operaio americano costruiva in media sette automobili l’anno; oggi ne fa ventinove. Di conseguenza le aziende assumono di meno”. Guadagnano anche meno. “Un operaio americano guadagna oggi il dieci per cento in meno della generazione precedente, è la prima volta che succede”. Quindi hanno ragione a non essere proprio contentissimi. “Il fatto è che l’innovazione non toglie posti di lavoro, semplicemente li sposta. Pensi all’auto senza conducente, che prima o poi arriverà. O meglio, pensi al camion senza conducente, che arriverà anche prima. In America ci sono due milioni di camionisti. E’ chiaro che questi posti del lavoro andranno a diminuire. Non so se scompariranno del tutto, ma andranno certamente a diminuire. Però poi ci sono i posti di lavoro che nascono invece qui a San Francisco, o a Pittsburgh, nelle aziende che stanno sviluppando questi nuovi modelli. Migliaia di ingegneri, che progettano dall’ottica alla meccanica questi nuovi veicoli, i loro software e hardware. Anche l’Italia deve mettersi nell’ottica che l’innovazione succederà, bisogna solo capire dove posizionarsi sulla cartina, se tra i luoghi dove i posti di lavoro scompaiono o dove nascono”.

 

“L’innovazione non toglie posti di lavoro, li sposta”. E i robot “sostituiscono certi tipi di impieghi, ma ne creano altri”

Ma i robot porteranno via i posti di lavoro o no? In Italia è un tormentone, che è abbastanza il colmo, perché non è che abbiamo tutta questa innovazione. “I robot stanno già portando via i posti di lavoro. Se vai alla Tesla ci sono i robot che costruiscono altri robot che poi assembleranno la mia macchina, io sono in lista d’attesa per avere il modello 3. I robot sostituiscono certi tipi di impieghi, ma ne creano altri. E non credo che tra cent’anni noi saremo tutti in vacanza a veder lavorare gli automi. Queste fasi di innovazione ci sono sempre state nella storia, centocinquanta anni fa il trattore e i concimi chimici hanno rivoluzionato l’agricoltura, l’hanno resa molto più produttiva, ma l’occupazione in quel settore è crollata dal 60 al 2 per cento del totale. Nel corso del tempo quelle persone hanno trovato lavoro nelle industrie”. A proposito di vacanze: in Italia si fa un gran parlare di reddito di cittadinanza, lei che ne pensa? “Non è un’idea che mi entusiasma. Aleggia anche negli Stati Uniti, era stato introdotto dagli economisti di centrodestra, poi abbracciato dalla sinistra e diventato bipartisan. Io ho grossa difficoltà ad appassionarmi a questa idea, perché andrebbe ad aiutare una platea indistinta di soggetti, ricchi e poveri. E poi è costosissimo, e andrebbe dunque ad aumentare la pressione fiscale. E’ un concetto bello in teoria, in pratica non è fattibile”. E i voucher? “Il Jobs Act è stata una riforma utile, tra l’altro fatta in un momento di mercato del lavoro debole; mentre generalmente queste riforme si fanno quando l’occupazione va bene. In Francia se ne parla da vent’anni, hanno gli stessi problemi nostri, c’è incertezza ad assumere perché poi c’è grande difficoltà a licenziare. Ma non sono riusciti a farlo, il Jobs Act. I voucher come misura temporanea avevano senso”.

 

Uno dei concetti più interessanti del suo libro è quello del moltiplicatore dell’innovazione, che spiega come si trasformano i posti di lavoro e le città oggi. Meno operai, più servizi attorno ai “cluster” cioè le città-grappolo dove tutte le aziende più tecnologiche si aggregano tra di loro. “Ogni volta che un lavoratore tecnologico, un ingegnere o un manager vanno a vivere in una città, producono cinque nuovi posti di lavoro che non hanno a che fare con l’innovazione ma sono lavori nel settore dei servizi. Sia occupazioni professionalmente qualificate (avvocati, insegnanti, infermieri) sia di occupazioni non qualificate (camerieri, parrucchieri, carpentieri). Per esempio, per ogni nuovo software designer reclutato da Twitter o da Google, a San Francisco si creano cinque nuove opportunità di lavoro per baristi, personal trainer, medici e tassisti”.

 

Meno operai, più servizi attorno ai “cluster”, cioè le città-grappolo dove le aziende più tecnologiche si aggregano tra di loro

A proposito di tassisti, a Roma si è ripreso a scioperare. “Ah. Sa cosa si dice qui? Se i taxi di San Francisco fossero stati meno inefficienti, Uber non sarebbe mai nata. Io ho perso due aerei per colpa dei taxi” dice Moretti. “Fino a dieci anni fa erano talmente inefficienti che tu telefonavi e loro non arrivavano mai. Era una specie di equilibrio perverso, tutti ne chiamavano due o tre perché almeno uno in quel modo arrivava, ma siccome appunto tutti ne chiamavano due o tre tu non ne trovavi mai uno libero. Non è un caso che Uber sia nata a San Francisco. Il comune aveva provato a riformarli per vent’anni ma senza successo; chi aveva le licenze, che qui si chiamano medallion e valevano come in Italia tantissimo, ha sempre spinto perché non ne fossero emesse di nuove. Poi è arrivata questa tecnologia ed è cambiato tutto. In Italia, che pure è un paese con tantissimi posti di lavoro nel turismo, colpisce che la lobby dei tassisti riesca a prevalere sull’interesse più diffuso del settore turistico. E’ un classico caso di interessi molto concentrati e molto vocali contro interessi diffusi dall’altra parte, e gli interessi concentrati prevalgono (anche se gli interessi diffusi riguardano molte più persone)”. “Però” continua Moretti “c’è un aspetto anche più interessante di lungo periodo, oltre al fatto che finalmente posso arrivare all’aeroporto. Riguarda la forma della città; qui i giovani la macchina non la comprano più e Uber Pool, o Lyft Line cambierà tutto” (i due servizi per cui la stessa macchina preleva più persone, e il costo si spartisce tra i passeggeri). “E’ ancora un servizio agli albori, ma a regime cambierà le nostre città, perché se invece di avere tante macchine con una sola persona dentro ne avremo tante con almeno tre quattro, il traffico e l’inquinamento diminuiranno drasticamente. E’ importante in città come San Francisco o Milano o a Roma, dove c’è un grosso problema di parcheggi”. “Ma ci sono altre imprese molto interessanti, c’è Chariot che è una Uber dei pullmini, ha dei van da quindici persone che ti vengono a prendere con una app, e coprono zone della città non servite dal trasporto pubblico, sta diventando molto utilizzato soprattutto dai pendolari. E’ un modello anche più interessante di Uber, perché sostituisce proprio le macchine”.

 

Ma torniamo al moltiplicatore dei nerd. Diceva? “Nella prospettiva di una città, un posto di lavoro ad alto contenuto tecnologico è molto più che un singolo posto di lavoro. L’effetto moltiplicatore esiste in quasi tutti i settori, ma in quello dell’innovazione ha dimensioni straordinarie, circa il triplo del manifatturiero. Ogni nuovo addetto del manifatturiero ‘produce’ infatti solo 1,6 altri posti di lavoro non qualificati. Ogni addetto tecnologico ne produce 5”. Dunque la tecnologia fa bene anche a chi ne resta fuori. “Certo, basta guardare il numero di baristi a San Francisco. La cosa più interessante è che i lavoratori tecnologici fanno salire gli stipendi e i redditi anche di quelli non tecnologici: intanto perché sono molto ben pagati. Un dipendente medio di Microsoft guadagna 170 mila dollari, ciò vuol dire che tolto vitto e alloggio spenderà molti soldi in servizi locali. Il secondo motivo è che le aziende tecnologiche hanno bisogno di una serie di servizi, e questo si traduce in grafici, venditori, consulenti. Il terzo è che le imprese tecnologiche tendono a concentrarsi una accanto all’altra generando ulteriori benefici”.

 

L’immagine che ci viene in mente è il villaggio medievale da “Nome della Rosa” con la sua cattedrale e intorno il suo nucleo di sarti, stallieri, fabbri. Anche se “cluster” significa grappolo, non chiostro. E intorno, il nulla americano. “Le persone poco scolarizzate, quelle con basso capitale di conoscenza, per la prima volta sono messe peggio della generazione precedente” dice Moretti. E siamo finalmente nella seconda America. “Due terzi delle persone in America sono in questa fascia, sono la maggioranza, e non lavorano certo a Google o a Facebook. Queste persone cinquant’anni fa avrebbero trovato un buon impiego in fabbrica. Oggi non più. Lo troveranno piuttosto nel settore dei servizi”. Se si dirigeranno verso qualche città-santuario. Ha dunque senso la battaglia di Trump per riportare il manifatturiero in America? “No, è una promessa populista senza senso. Le imprese americane danno lavoro ormai a meno del dieci per cento degli americani. Una percentuale che continua a declinare, peraltro, nella stessa identica maniera delle economie europee, Germania, Francia e Inghilterra, Italia. Sono rette parallele. Anche in Cina ormai l’occupazione nel manifatturiero cala”.

 

“Qui i giovani la macchina non la comprano più. Quando saranno a regime, Uber Pool e Lyft Line cambieranno le nostre città”

Torniamo qui nella bolla californiana. Esiste un problema di sessismo in Silicon Valley? Sempre più aziende lamentano di molestie, il numero di donne ai vertici delle aziende è sempre bassissimo. “Certamente c’è un problema di sessismo in molte aziende e le donne sono ancora molto poche; dall’altra parte ormai sia nelle aziende che nell’università c’è una pressione fortissima ad assumere donne e minoranze, e noi ne siamo ben felici, ma c’è quasi una discriminazione al contrario”. Si straparla di Silicon Valley, qualcuno la vorrebbe replicare in Italia. “Ma la Silicon Valley così come gli altri cluster nascono dal basso. Silicon Valley non è stata progettata dal governo. O Seattle, che era un centro sonnacchioso fino a vent’anni fa, non è stata pianificata dal governo, ma da Microsoft e Amazon che ci hanno messo la loro sede”. Eccoli, i cluster della “prima America”, dove le migliori aziende si installano una accanto all’altra, e danno la caccia ai migliori talenti, in un effetto-domino infinito. Ci sono però dei casi di “valley” finanziate dai governi, come Israele, ormai polo supertecnologico mondiale, e Taiwan. “La prima nasce in realtà come effetto collaterale di un grande sforzo, quello per la difesa, oltre che di un grande capitale umano. Nel caso di Taiwan, che fino a vent’anni fa era un paese agricolo, il governo finanziò una decina di piani industriali, e con uno ebbe fortuna, perché puntò sui semiconduttori. Bisogna vedere però quanto avranno speso”. La Silicon Valley si divide in apocalittici e integrati, chi si straccia le vesti (la maggior parte) e chi fa da pontiere con l’Amministrazione, come Peter Thiel, leggendario finanziere libertario. Lei lo farebbe il consigliere di Trump? “No. Tra gli economisti accademici, anche quelli più conservatori, tutti si sono rifiutati di avere a che fare con questa amministrazione. Il Council of Economic Advisors era una delle cose belle dell’America, prendevano economisti di chiara fama, li portavano a Washington per due–tre anni come consiglieri del presidente e poi li riportavano all’università. Nessuno ha accettato, il risultato è che stanno prendendo dei ciarlatani. Uno dei problemi maggiori di questa amministrazione è la mancanza di competenza. Al livello più alto ma anche quello sotto, quello che fa funzionare le cose”.

 

Ma non è che il populismo alla fine viene fuori proprio dalla Silicon Valley? Una grande nemesi del cluster più liberal d’America, con l’idea che la gente possa fare meglio delle élite: in fondo Uber si basa sul concetto che il tassista non vale niente, ti porto io con la mia macchina. Airbnb sull’albergo che non ha più senso, ti do casa mia. E così via. “Uhm. E’ una domanda interessante. Quello che so è che il programma di Hillary Clinton avrebbe portato a un grande trasferimento di ricchezza dalla prima America, cioè da dove siamo noi adesso, verso la seconda, quella in crisi. Clinton prevedeva grandi investimenti sulla scuola, un aumento delle tasse sui più ricchi e redistribuzione aggressiva sui redditi bassi”. Quindi hanno votato contro i loro interessi? “Non c’è alcun dubbio”.

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