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La teoria economica del populismo esiste e porta sempre allo sfascio

Maurizio Stefanini

Dal Cile di Allende al Venezuela chavista. Uno studio del think tank European Economy Advisory Group (Eeag)

Roma. Esiste una teoria economica del populismo? Sì, e porta i paesi allo sfascio, anche se i problemi che pone non possono essere affrontati semplicemente ricordando che i populisti sono brutti e cattivi. E’ questo il succo di Economics of Populism, uno studio appena pubblicato a cura del think tank European Economy Advisory Group (Eeag). Sette sono gli economisti di tutto il mondo che vi hanno lavorato: tra di loro Harold James dell’Università di Princeton, John Driffill di Yale, Torben Andersen della danese Università di Aarhus, Clemens Fuest dell’Istituto economico Ifo di Monaco da Baviera, Jan Egbert Sturm dell’istituto economico svizzero Kof di Zurigo, Branko Urosevic dell’Università di Belgrado e Giuseppe Bertola dell’Università di Torino. In effetti, il tema generale del documento è l’economia europea, secondo una tradizione ormai arrivata alla sua sedicesima edizione. Ma quest’anno il titolo è stato dato all’Economia del Populismo, ricordando da un lato l’elezione di Trump e la Brexi e dall’altro gli appuntamenti elettorali che dopo Syriza, Podemos e Cinque Stelle vedono al centro dell’attenzione il Pvv di Wilders, Marine Le Pen e l’Alternativa per la Germania (AfD).

 

Il primo capitolo presenta un quadro generale dell’economia europea, il terzo è sulla Brexit e il quarto sull’emergenza migranti, a delimitare l’humus da cui l’ondata populista è emersa. Nel secondo capitolo, quello centrale, si cita abbondantemente l’ormai ricca letteratura politologica che ha cercato di definire il populismo appunto come fenomeno politico. Come spiegano molti di questi studi, il populismo è una thin ideology: uno stile più che un pensiero compiuto, che viene usato come una spezia per condire progetti ideologici che possono andare dalla sinistra alla destra. Gli economisti, invece, di populismo si sono occupati meno: secondo il documento, ci sono in pratica solo due studi sul tema. Uno, in particolare, risale al 1990, e si occupa specificamente di America latina.

 

Si tratta di The Macroeconomics of Populism in Latin America, scritto da Rudiger Dornbusch e Sebastián Edwards per la University of Chicago Press. E’ basato soprattutto sulle esperienze del Cile di Allende e del Perù di Velasco Alvarado. L’altro risale invece al 2011: A Political Theory of Populism di Daron Acemoglu, del Mit di Boston, basato più sull’analisi del populismo europeo. Basta però per scoprire che quando i populisti vanno al potere, la thin ideology diventa una vera e propria hard economic, con un ciclo in quattro fasi. La prima, che dura al massimo un anno: un forte incremento di spesa pubblica pompa produzione e occupazione, mentre l’inflazione è tenuta bassa da sistemi di controllo coattivi dei prezzi. Insomma, sembra che tutto vada più che bene. Il documento fa raffronti con l’effetto Trump in Borsa e le buone condizioni del Regno Unito postBrexit. Dopo al massimo dodici mesi, però, inizia la fase due: frustrati dall’imposizione di prezzi artificialmente bassi, i produttori interni smettono infatti di rifornire il mercato, mentre le barriere che sono state frapposte all’importazione impediscono di acquistare all’estero. I beni iniziano così a sparire dagli scaffali, mentre i sussidi fanno decollare il debito pubblico. Decolla anche l’inflazione, ma poiché i salari sono ancora alti, fiorisce il mercato nero. Le similitudini tra il Cile di Allende e il Venezuela chavista si accentuano nella fase tre: la penuria diventa generalizzata, l’inflazione si fa astronomica, i capitali fuggono, i salari reali crollano. Insomma, l’economia collassa. Quarta fase: i populisti perdono il potere e un nuovo governo cerca di raccogliere i cocci con politiche di stabilizzazione necessariamente durissime.

 

Alla fine, salari e standard di vita sono nettamente al di sotto di quanto non fossero all’inizio del ciclo populista, e tali rimangono a lungo. Ma l’elettorato populista rimpiange la prosperità apparente della prima fase. E il ciclo può così ricominciare.

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