Dopo un mese di scandali la lezione per Uber è limitare la ferocia

Eugenio Cau

L'azienda si è spinta troppo oltre il vecchio adagio “move fast and break things”

Roma. Uber ha appena vissuto il peggior mese della sua storia, e forse uno dei mesi più disastrosi della storia industriale americana. Quasi ogni giorno la compagnia fondata da Travis Kalanick è stata investita da uno scandalo capace di distruggerla, e la fonte dei disastri sembra non essersi esaurita. L’elenco potrebbe riempire molte pagine. Il 28 gennaio, Uber è stata accusata di aver cercato di approfittare economicamente di uno sciopero dei tassisti di New York che protestavano intorno all’aeroporto contro il primo “muslim ban” di Donald Trump. Contemporaneamente, gli utenti hanno iniziato a contestare Kalanick per aver accettato di partecipare a una commissione di advisor del presidente Trump. Inizia a diffondersi l’hashtag #DeleteUber, che segna la prima protesta di massa degli utenti contro un serivzio che finora è sempre stato visto con favore dagli utilizzatori. Kalanick si dimette dalla commissione trumpiana pochi giorni dopo, ma non prima che oltre 200 mila persone cancellino il loro account Uber.

 

Il 19 febbraio, un ex ingegnere di Uber, Susan Fowler, pubblica un resoconto terribile in cui racconta come Uber coprisse e giustificasse gli atti di molestia sessuale compiuti dai dirigenti “molto produttivi”. Pochi giorni dopo, un’inchiesta ancora più terribile del New York Times racconterà come dentro a Uber le molestie e sulle donne siano una routine sistematicamente coperta e minimizzata. Kalanick assume l’ex procuratore generale Eric Holder per indagare sul caso. Diversi dirigenti di alto profilo sono licenziati o si dimettono. Contestualmente, Google intenta una causa contro Uber accusandola di aver rubato le sue tecnologie per l’auto che si guida da sola, ma i due scandali più grossi devono ancora arrivare: prima Bloomberg pubblica un video in cui si vede Kalanick che insulta e dà del fallito a un driver di Uber che si lamentava dell’azienda. Il giorno dopo Kalanick scrive una lettera di scuse in cui ammette che “deve crescere” e “cercare aiuto di leadership”.

 

 

Di questa settimana è la notizia che Uber sta cercando un secondo in comando, una figura simile a quella che Sheryl Sandberg è per Mark Zuckerberg di Facebook. Infine il New York Times svela il programma “Greyball”, con cui Uber sabotava da remoto le indagini avverse degli ufficiali governativi. La mole di scandali è tale che in molti si sono chiesti se Uber riuscirà mai a rialzarsi. “Move fast and break things” è spesso il motto delle startup “disruptive” della Silicon Valley, a partire da Facebook, ma Uber, all’apparenza, sembra andato troppo oltre, e ora rischia di rompere se stesso. La voracità di Uber è senza pari nella storia recente, così come la sua volontà di bypassare le regole quando è in gioco il bene più grande dell’innovazione. L’atteggiamento di Kalanick è stato applaudito ed è ancora ammirabile, ma gli scandali recenti, che ribollono da tempo, sembrano mostrare che promuovere una cultura sistematica della sregolatezza, se ha fatto bene al business, ha però al tempo stesso corrotto la cultura interna all’azienda. “Rompere cose” è giusto, ma farlo senza curarsi dei costi sociali è pericoloso, perché alla fine quando un manager è produttivo diventa poco importante se tocca le impiegate, e un driver che si lamenta è automaticamente un fallito. La ferocia di Uber è esondata fuori dal business, Kalanick deve far rientrare il genio nella lampada.

Di più su questi argomenti:
  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.