Il governatore della Bce Mario Draghi (foto LaPresse)

Perché vediamo una deriva "politica" delle Banche centrali

Carlo Torino

L'indipendenza è in discussione, va di pari passo con una legittimazione democratica, ma dev'essere difesa

Roma. Alla luce della alquanto tumultuosa evoluzione nello sviluppo economico dei paesi occidentali, negli anni successivi alla deflagrazione della crisi finanziaria, occorrerebbe forse chiedersi se la sacralità dell’indipendenza statuale delle banche centrali – principio incontrovertibile intorno al quale era venuto formandosi un ampio consenso prima del 2008 – abbia ancora una valida ragione di esistere. E in modo particolare, se concepita – così com’è oggi – entro i canoni di una inflessibile e dottrinaria inviolabilità. E non ha valore circoscrivere la questione entro i limiti, per ora, squisitamente teoretici di un eventuale abbandono dell’Euro di uno dei paesi aderenti alla moneta unica.

 

Un approccio che trovi il suo innesto in una logica ispirata a un revisionismo tecnico-istituzionale – scevro da immediati interessi politici di breve respiro – è forse auspicabile; e ciò in ragione, soprattutto, di una straordinaria (e recente) dilatazione dello stesso ambito d’intervento delle Banche centrali, ben oltre quelle funzioni strettamente riconducibili, in linea di principio, alle attività di politica monetaria tradizionale.

 

E non si tratta, d’altra parte, di porre la questione su un piano di rigida contrapposizione ideologica tra i partigiani di una dottrina separatista, e coloro i quali, per contro, privilegerebbero un controllo assolutistico dell’esecutivo sull’operato dell’autorità monetaria. Bensì di stimolare un ragionamento sugli aspetti critici relativi al coordinamento – per “coincidenza divina” (Blanchard) - fra politica fiscale e monetaria da una parte; e al legame di queste con la delicata attività di supervisione bancaria; nel tentativo di preservarne, sia pure, un certo grado di autonomia politica, ma valutandone al tempo stesso in profondità l’effettivo grado di legittimità democratica.

 

A tal proposito è opportuno rievocare il ruolo di sempre maggiore rilievo che le banche centrali hanno, a grado a grado, assunto nella risposta – o quanto meno nel tentativo di formularne una – al dilagare di una crisi che aveva assunto dimensioni sistemiche.

 

E' innegabile infatti che vi sia stata negli anni immediatamente successivi al principio della depressione, una diffusa tendenza – in un certo senso avventata – nel ricondurre in capo alle autorità monetarie una congerie profondamente articolata di funzioni: dal mantenimento della stabilità dei prezzi, alla supervisione del rischio sistemico, fino all’assolvimento dei compiti specifici di vigilanza prudenziale del sistema bancario. Questa concentrazione, in alcuni casi palesemente eccessiva, ha contribuito a sollevare ragionevoli dubbi – spesso condivisibili – soprattutto in un contesto di tassi di interesse prossimi allo zero e nel perdurare di condizioni economiche strutturali di Secular Stagnation – (dal saggio di Lawrence Summers) – le quali hanno di necessità imposto una cura ottenuta mediante approcci radicali e non convenzionali di politica monetaria (Quantitative easing).

 

E infatti, l’esperienza della crisi ha avuto il merito di produrre la consapevolezza di quanto inefficace il canale di trasmissione della politica monetaria – e cioè l’effetto concreto sui comportamenti collettivi – si riveli, in presenza di un sistema bancario pericolosamente compromesso per via di un ciclo recessivo di singolare intensità (perché contaminato, ad esempio, da masse significative di crediti deteriorati). Si è venuta dunque progressivamente a sostenere l’esigenza di una crescente integrazione – sotto l’egida delle Banche centrali – tra le attività squisitamente preposte al contenimento dell’inflazione attraverso manovre che incidessero sul tasso ufficiale, e quelle di supervisione micro-prudenziale: in principio riconducibili a distinte autorità regolamentari.

 

Molti tra gli osservatori internazionali più spregiudicati non hanno esitato a mettere in discussione il valore stesso dell’indipendenza, criticandone in sommo grado la forse eccessiva autonomia con la quale si sono perseguite politiche non convenzionali le quali hanno nei fatti mancato di produrre effetti desiderati – non riuscendo a generare inflazione (in una fase deflattiva), e crescita. E, si chiedono costoro, se imponendo un maggiore controllo dei governi sulle banche centrali – consentendogli di finanziare il debito degli stati, per esempio – non si sarebbe giunti in una posizione migliore che non attraverso politiche di quantitative easing o di tassi d’interesse negativi.

 

D’altra parte è essenziale far notare come un certo grado di autonomia politica costituisca la precondizione per un efficace controllo dell’inflazione, e al tempo stesso sottragga efficacemente l’autorità monetaria da indebite ingerenze politiche atte a indurre, per esempio, i cosiddetti cicli economici politically-engineered: e cioè quella fattispecie in cui un governo possa avere interessi (elettorali) a produrre stimoli di breve periodo nella crescita e nell’ occupazione, a detrimento della stabilità dei prezzi.

 

Concludendo è opportuno dunque sottolineare come la notevole espansione nelle funzioni attribuite alle Banche centrali – in modo particolare in quegli ambiti relativi alle attività di vigilanza prudenziale e di controllo del rischio sistemico – abbia lasciato emergere impellenti necessità di coordinamento tra i governi eletti democraticamente e le autorità monetarie. In virtù di questo processo di dilatazione, e per così dire di annessione di compiti precedentemente in capo ad autorità regolamentari distinte, si è voluta porre la questione di una maggiore supervisione dell’operato delle Banche centrali da parte dei governi, se non altro per garantirne un sufficiente grado di legittimità democratica. Controllo e supervisione democratici che devono pur tutelare in ogni modo quegli ambiti operativi di indipendenza essenziali alle funzioni tradizionali della politica monetaria.

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