Il Piano Alitalia non decolla mai, la compagnia è spacciata

Riccardo Gallo

Nemmeno se avesse riempito tutti gli aerei, ogni giorno dell’anno, avrebbe raggiunto l’equilibrio. Il guaio è la “non-strategia”

Roma. Il problema di Alitalia ufficialmente deriva dalla cattiva gestione degli ultimi anni (almeno secondo il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda), ma anche dal modello di business (secondo il presidente Luca Cordero di Montezemolo) e da una eccessiva sudditanza agli interessi del socio Etihad (secondo Michael O’Leary, ceo di Ryanair). La soluzione verrà indicata in un nuovo piano che è stato commissionato ai consulenti Roland Berger e Kpmg, e che sarà illustrato al governo tra una decina di giorni. Questo piano modificherà le rotte, adeguerà la flotta, suggerirà l’immissione di nuovi capitali da parte delle banche (che poi sono soldi di noi risparmiatori) e conterrà tagli dell’organico per eliminare un certo qual esubero occupazionale. A ben guardare, però, è la stessa solfa di uno, due, cinque, dieci, quindici anni fa. Mai che un azionista, un banchiere, un governante chieda a chi fece e attuò il piano l’ultima volta cosa c’era di sbagliato, cosa non andò bene.

 

Per capire come stanno le cose, ho fatto un’analisi dell’ultimo bilancio consolidato del gruppo e dei documenti pubblici disponibili. Innanzitutto, viene fuori che nemmeno se avesse riempito tutti gli aerei, tutti i giorni dell’anno, nemmeno se avesse trasportato il doppio o il triplo o il quadruplo di passeggeri e merci, nemmeno se li avesse legati in soprannumero sulla coda degli aerei e se si fosse fatto pagare il biglietto anche da loro, la compagnia avrebbe raggiunto l’equilibrio economico della gestione operativa. Non so se Roland Berger e Kpmg abbiano fatto questi conti, e se li abbia fatti il ministro.

 

 

Nel 2015, mentre il grado di riempimento medio effettivo è stato pari a un pur dignitoso 77 per cento, il riempimento che sarebbe servito a raggiungere il pareggio operativo (il Belf, cioè Break-even load factor) è da me calcolato pari a 430 per cento della capacità di trasporto – un assurdo. Questo dato dipende da due elementi: primo, un margine troppo esiguo tra ricavo netto unitario (basso per la concorrenza di mercato) e costo variabile unitario (consumo di carburante, incomprimibile); secondo elemento, i costi fissi (del lavoro e ammortamenti) pari a 712 milioni di euro. Viene fuori poi che il risultato operativo, cioè quello dell’attività industriale ordinaria, prima degli oneri finanziari su debiti, prima della gestione straordinaria e delle tasse, è stato negativo (perdita) per 584 milioni, pressocché uguale all’intero costo del lavoro (600 milioni). In uno sforzo di contenimento dei costi, poiché come detto il consumo di carburante è incomprimibile (non si può decollare con un filo di gas) e l’ammortamento (degli aerei e delle altre immobilizzazioni tecniche) non può essere ridotto, ciò significa che resta il costo del lavoro su cui poter incidere. Ma significa pure che, per azzerare la perdita, il taglio occupazionale dovrebbe portare 584 milioni, cioè dovrebbe essere del 97 per cento di tutto l’organico (10 mila dipendenti a fine 2015 per 600 milioni di costo).

 

Questa conclusione ovviamente è assurda, ma fa scopa con il 430 per cento della capacità di trasporto. In altri termini, la concorrenza comprime i margini e rende qualsiasi struttura aziendale incompatibile con l’economicità. Per ridurre l’incidenza dei costi fissi, ci sono due strade: o l’economia di scala, attraverso il gigantismo aziendale, cioè attraverso fusioni tra compagnie, o la rinuncia alle strutture come fanno le compagnie low cost. Nonostante l’alleanza con Etihad, invece, l’Alitalia non ha seguito né la prima né la seconda strada, e oggi non è né carne né pesce. E’ figlia dell’orgoglio stupido e dell’enfasi sterile della compagnia di bandiera, dei campioni nazionali, della strategicità del settore, delle sinergie pubblico-privato (Alitalia-AirOne): tutte balle per coprire imbrogli. 

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