Il velleitarismo di Moody's sulle sofferenze e la questione (ancora aperta) del Monte dei Paschi

Carlo Torino

La spinta tardiva dell'agenzia americana sulla cartolarizzazione delle sofferenze e l'azzardo morale su Mps

Roma. Ancora una volta assistiamo ad una farsesca presa di posizione da parte delle ormai irrimediabilmente screditate agenzie di rating; le quali oramai altro non fanno se non conferire il loro tardo imprimatur a delle ovvietà che il mercato, con ampio anticipo, ha già largamente scontato. Ovvietà che però hanno una loro cardinale importanza, e alle quali si sarebbe forse potuto porre rimedio, se solo avessimo avuto il coraggio di portare avanti risolutamente quelle pur buone riforme che pure il governo Renzi aveva concepito. Provvedimenti che sono invece finiti nel vortice di un totale quanto incomprensibile oblio, che non altro fa se non snervare quel minimo residuo di fiducia che la società civile ripone nel senso di responsabilità della nostra classe dirigente.

 

Ancora una volta parliamo dell’ormai radicato problema delle sofferenze bancarie. Ancora una volta, lasciando che si evinca quell’irresponsabile leggerezza con cui si sta ponendo mano ad una questione di precipua importanza, che minaccia di divenire inestirpabile – se non adeguatamente affrontata – e di imporre dunque una pesante ipoteca sul futuro economico di questo Paese.

 

Il rapporto tra sofferenze e credito complessivo erogato - coma già riportato sul Foglio – è giunto al 18 per cento: il più alto in Europa, dove la media è al 5 per cento. In relazione al valore complessivo di capitale regolmentare presente nel sistema (tra i più bassi in Europa: peggio di noi solo il Portogallo - linea nera, grafico a destra), presentiamo il più alto livello di sofferenze in relazione alla reddività del settore bancario. Nella sostanza, i nostri istituti sono sottocapitalizzati, e la redditività generata non è sufficiente a risolvere il problema delle sofferenze a livello organico (e in tempi ragionevoli), se non imponendo una totale erosione di patrimonio netto a livello sistemico.

 

 

Ma veniamo al dunque. Ciò che Moody’s suggerisce equivale a quanto già detto dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e European banking authority (Eba) prima, e dalla società di revisione Price Waterhouse Coopers poi: attraverso rapporti che bene mettevano in luce le dimensioni inquietanti del problema. Monito che in effetti invita a portare avanti quanto già avevamo iniziato: e cioè di proseguire sulla strada delle cartolarizzazioni dei crediti in sofferenza.

 

È opportuno dunque delineare i pregi di questa tecnologia di finanza strutturata. Essa consente in effetti ad un istituto di credito di deconsolidare determinati attivi (non necessariamente sofferenze), trasferendoli all’interno di un veicolo giuridcamente indipendente (denominato Spv: Special purpose vehicle), e di distribuirne il rischio di credito attraverso una struttura di capitale che si articola su vari piani di subordinazione.
Nella sostanza si viene altresì ad ottenere, a beneficio della banca, la conseguente monetizzazione di questi attivi: e ciò avendone alienato la quasi totalità del rischio di credito.

 

È evidente inoltre che il prezzo di trasferimento degli attivi sia determinante al fine di far rilevare in conto economico, per la banca, un’eventuale plus o minusvalenza. Nel caso degli npl si trattrebbe chiaramente di una forte minusvalenza, dettata essenzialmente dalla differenza tra il valore netto contabile (il quale contempla gli accantonamenti sinora effettuati) e il valore di mercato dei crediti (oggi ragionevolmente ipotizzabile intorno al 20 per cento).

 

Come già enunciato in altre occasioni, ciò implicherebbe una perdita aggregata a livello sistemico - e un conseguenziale fabbisogno di nuovo capitale regolamentare – nell’intorno dei 16 miliardi di euro: al quale solo il neocostituito fondo di Stato può nei fatti provvedere, attraverso – com’è immaginabile – un processo di “precautionary recapitalization” (simile al caso Mps).

 

In realtà tutto quanto sulla questione ci venga suggerito dai vari organismi internazionali è già ben noto ai nostri politici, tant’è che il precedente governo aveva posto in essere una serie di valide riforme: a partire dalla garanzia di stato sulle cartolarizzazioni delle sofferenze (Gacs), fino alla complessa gestazione del fondo Atlante (disgraziatamente insufficiente in termini di masse); e ad una timida riforma del diritto fallimentare, congiunta ad un’invece efficace, seppur tardiva, revisione del trattamento fiscale sugli accantonamenti (oggi interamente deducibili in un unico esercizio).

 

Ma quali sono gli ostacoli che ci impediscono di proseguire sulla strada delle cartolarizzazioni. In primo luogo, i tempi di recupero del collaterale – in un contesto di procedure concorsuali – rimangono intollerabilmente elevati: circa 8 anni (grafico in basso a destra), per un valore di recupero del 37 per cento in media (grafico a sinistra, ultima barra).

 

 

Un’operazione di cartolarizzazione di sofferenze, implicherebbe inoltre - come già spiegato – una forte perdita in conto economico, che la Gacs può limitare solo in misura trascurabile (tra i cinque e i sei punti percentuali: come stimato da Deloitte). Ne conseguirebbe un forte impatto sulla redditività (e sul capitale) dei nostri istituti di credito: oggi tra le più basse un Europa – più elevata solo di Grecia e Portogallo. (Grafico sotto, terzultima barra).

 

 

Insomma, quanto detto da Moody’s è indefinibilmente pleonastico e poco aggiunge di concreto alla risoluzione del problema. Concretezza che era invece presente nella proposta di Andrea Enria, presidente dell’Eba, inerente alla creazione di un’asset management company europea da 250 miliardi, con la pertecipazione di capitali privati. Un piano che avrebbe implicato un esborso minimo da parte dei governi: circa 20 miliardi (equivalente a un patrimonio netto dell’8 per cento circa in relazione agli attivi: il resto attraverso la leva finanziaria); ed evitato inoltre qualsiasi rischio di mutualizzazione delle perdite.

 

Un’idea che non ha trovato adesioni, soprattutto a Berlino, dove pare che il problema sia assurdamente concepito come strettamente Italiano. A questo punto, rimaniamo in concitata attesa: senza essere ben coscienti se esista o meno un’effettiva volontà politica; un’attesa resa ancora più insopportabile dalla folle ossessione del ministro tedesco Wolfgang Schäuble
che proprio oggi – in aperto contrasto col Fmi, e con il singolare appoggio di Padoan – chiedeva ancora più austerity.

 

Un’ultima osservazione sul caso Mps, su cui ancora si attende l’imprimatur da parte della Commissione. Il piano di “precautionary recapitalization” del quale lo stato dovrà farsi carico sborsando 6,6 miliardi, prevede che i creditori istituzionali subordinati vengano rimborsati in nuove azioni ad un concambio equivalente al 75 per cento del valore facciale delle loro obbligazioni. Per molti di questi, i quali hanno acquistato i titoli quando scambiavano ben al di sotto di 75 centesimi per euro, ciò implicherebbe un considerevole capital gain (in termini di attribuzione di nuovo equity) – frutto di uno spregiudicato azzardo morale – finanziato con risorse dei contribuenti.

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