Banca Carige&Co. nella terra desolata delle sofferenze

Carlo Torino

I guai (sottovalutati) della banca genovese e altri casi critici che lo stato dovrà sistemare 

Roma. In Italia il valore complessivo delle esposizioni deteriorate ammonta oggi a 360 miliardi di euro (più di un quarto del totale europeo), e quattro volte il loro valore nel 2008. Il rapporto delle sofferenze rispetto al valore complessivo del credito concesso all’economia è del 18 per cento, contro una media europea del 5.

 

A valori di mercato, questi dati implicherebbero un fabbisogno di nuovo capitale regolamentare – calcolato in conformità alle direttive di Basilea III – di una somma ipotizzabile nell’intorno dei 16 miliardi di euro: e per la quale è evidente – dal caso Monte dei Paschi di Siena – non esservi l’interesse di capitali privati. In sostanza, è ragionevole attendersi che gran parte di quest’onere ricadrà sullo stato. 

 

Negli ultimi due giorni si è assistito, con una certa apprensione, alle dichiarazioni dei vertici di Banca Carige relative ai risultati per il 2016, resi pubblici lo scorso venerdì. I numeri sono raggelanti: una perdita netta in conto economico da 300 milioni di euro; conseguenza di uno spaventoso accantonamento su crediti deteriorati di 387 milioni, bruscamente imposto da una Banca centrale europea (Bce) che pare stia iniziando a mostrare una certa risolutezza sulla questione. 

 

Le esposizioni deteriorate lorde, in aumento di 510 milioni solo nell’ultimo anno, giungono a quota 7,3 miliardi. Il margine d’interesse, metrica principale della gestione caratteristica, in calo del dieci per cento, è oramai ridotto all’osso. 

 

E’ francamente preoccupante la relativa calma ostentata dai vertici dell’istituto – non condivisa dal mercato, che ha invece punito il titolo in Borsa –, coscienti come immaginiamo essi siano che se non fosse per irragionevoli regole contabili, a valori di mercato quelle sofferenze imporrebbero perdite tali da assorbire l’intero valore del patrimonio netto. 

 

La banca, in quell’eventualità – non così remota come sovente si lascerebbe intendere – sarebbe dunque costretta ad avviare un processo di ricapitalizzazione totale (come nel caso, ancor più’ grave, di Mps), con esigue probabilità di poter addivenire ad una soluzione di natura privata, e rendendo quindi ancora una volta necessario l’intervento dello Stato attraverso il fondo salva-banche.

 

L’iniezione di risorse pubbliche, a voler essere ottimisti, potrebbe in questo caso sfiorare i 3 miliardi di euro, e avvenire nella forma di una precautionary recapitalization – come già avvenuto nel caso Mps –, soggetta ad approvazione preventiva da parte della Commissione europea, previo parere positivo da parte della Bce: in conformità a quanto stabilito dalla direttiva Brrd (Bank recovery and resolution directive). 

 

Le condizioni degli istituti veneti (Popolare Vicenza e Veneto Banca) d'altra parte non sembrano essere più incoraggianti: ammorbati da oltre dieci miliardi di sofferenze su crediti. E proprio in questi ultimi giorni, l’amministratore delegato Fabrizio Viola, ex Mps, lasciava intuire, non troppo velatamente, che anche in questo caso gli aiuti di stato saranno necessari a ricostituire il capitale del gruppo (ormai unico), e a garantirne la solvibilità. La somma presagita per l’intervento ammonterebbe  a 5 miliardi di euro.

 

L’istituto pugliese Banca popolare di Bari è oggi al centro di un dibattito acrimonioso e profondamente divisivo, interno al Partito democratico, circa la sua mancata trasformazione in società per azioni, che ne avrebbe notevolmente snellito i processi di governance, agevolando la risoluzione ai suoi ormai sedimentati problemi di bilancio. Facciamo qui inoltre rilevare i timori – questi ragionevoli – di Matteo Renzi inerenti alla Popolare di Bari, la quale ha di recente ultimato un’operazione di cartolarizzazione di 480 milioni di Npls (non-performing-loans), utilizzando la garanzia statale sulla tranche senior della struttura (Gacs), e deconsolidando di fatto il portafoglio di sofferenze. 

 

L’analisi tracciata pone in rilievo la natura endemica di un patologia, quella delle sofferenze, concepita dall’insufficienza culturale di una classe dirigente provinciale, e troppo spesso connivente, che conosceva – e conosce ancor più oggi – le dimensioni metastatiche di un problema che sta progressivamente devastando il sistema finanziario italiano; e al quale il governo Renzi prima e quello Gentiloni poi, sollecitati dalle istituzioni europee, hanno in buona fede – ma timidamente – tentato di porvi un argine attraverso delle buone riforme, in teoria, rivelatesi però nei fatti inefficaci perché mai attuate con risolutezza. 

 

E soprattutto, quando una seria proposta a livello europeo, atta a risolvere strutturalmente il problema, è arrivata a gennaio dal presidente dell’Eba (European banking authority), Andrea Enria – con l’idea della costituzione di una band bank europea cofinanziata da capitali privati e contributi pubblici, in piena conformità ai principi in materia di aiuti di stato e di bail-in; e senza peraltro porre in essere mutualizzazione alcuna delle perdite (grazie al meccanismo del clawback) –; quest’ultima non ha generato le adesioni e il supporto che avrebbe invece meritato, incontrando altresì inconcepibili manifestazioni di dissenso e velleitarie perplessità di natura burocratica.

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