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L'indipendenza della banca centrale, un argine al deficit sovranista

Sandro Brusco

La questione dell’uscita dell’Italia dall’euro continua a riproporsi nel dibattito politico senza che vi sia alcuna seria valutazione dei rischi

La questione dell’opportunità dell’uscita dell’Italia dall’euro continua a riproporsi nel dibattito politico senza che vi sia alcuna seria valutazione dei rischi che tale mossa comporta. Si continua a porre l’enfasi su questioni marginali, come la frazione di debito che sarebbe necessario rimborsare in euro dopo un eventuale cambio di valuta, evitando invece le questioni cruciali. Una tra le più importanti è la seguente: è opportuno avere una banca centrale indipendente oppure è preferibile una banca centrale che obbedisce alle direttive governative? Questa può sembrare una questione distinta, che si pone anche quando ogni paese conserva una moneta differente. Per ragioni storiche però non lo è.

 
Il processo che ha portato alla nascita dell’euro è stato in buona misura il risultato di una risposta all’inflazione degli anni Settanta, che ha mostrato la pericolosità di una politica monetaria eccessivamente condiscendente verso la politica fiscale. Il problema si manifestò più o meno ovunque, non solo in Italia. La reazione fu quella di intensificare l’indipendenza delle banche centrali, cercando di isolarle dalle pressioni dei governi. Il cosiddetto “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, ossia la fine della politica in base alla quale la Banca d’Italia acquistava, aumentando la base monetaria, i titoli di stato che il governo non riusciva a collocare, fu il più importante provvedimento. In altri paesi i cambiamenti istituzionali non furono necessari e semplicemente le banche centrali adottarono una politica monetaria più restrittiva.

 
La reazione del sistema politico italiano al divorzio non fu positiva e mostrò un livello di irresponsabilità che paghiamo tuttora. Anziché limitare il deficit pubblico a fronte di interessi reali estremamente elevati, i governi di pentapartito mantennero deficit elevatissimi, superiori al 10 per cento del pil, per tutti gli anni Ottanta. Fu solo con la crisi di fiducia dei mercati nel 1992 che si verificò un’inversione di tendenza. La svolta purtroppo fu imposta dall’impossibilità di finanziare elevati livelli di debito e non da una scelta politica cosciente e approvata dalla popolazione. Fu allora che iniziarono a girare gli slogan del tipo “ce lo chiede l’Europa” per giustificare scelte che invece erano semplicemente imposte dall’elementare principio che nessuno, in alcun paese e in alcun periodo storico, può continuare a indebitarsi in modo crescente. Alla fine il problema resta lo stesso. L’elettorato italiano premia in modo sproporzionato le forze politiche che accrescono la spesa pubblica finanziandola in deficit e questo è un semplice dato di fatto. I professionisti della politica ne sono coscienti e reagiscono proponendo alti livelli di deficit. Il problema ovviamente è che questo non può durare per sempre, dato che il debito alla fine diventa e i risparmiatori smettono di comprarlo. L’adesione dell’Italia al trattato di Maastricht e successivamente la spinta a entrare nella moneta unica furono semplicemente un modo di legarsi credibilmente le mani. In sostanza, l’Europa venne usata come scusa per evitare di continuare a fare spesa in deficit.

 
Qual è dunque il vero costo di uscire dall’euro? La verità è che se si uscisse dall’euro e si restituisse la politica monetaria a una banca centrale nazionale ben gestita e completamente indipendente dal governo non cambierebbe molto. Ma, naturalmente, questo è esattamente il contrario di ciò che vuole la variegata galassia sovranista. L’uscita dall’euro viene richiesta esattamente per ritornare alle pratiche degli anni Settanta, ossia espansione in deficit della spesa pubblica e suo finanziamento mediante emissione di moneta. Questa è la perfetta ricetta per il disastro economico. L’eliminazione di qualunque elemento di disciplina di bilancio porterebbe a rischi d’inflazione alta e variabile. L’incertezza che questo indurrebbe sul rendimento reale (ossia, al netto dell’inflazione) del debito pubblico porterebbe a una sua crescita. Gli accresciuti interessi reali porterebbero a un aumento della spesa per interessi, rischiando di innescare una spirale di crescita di spesa pubblica e inflazione che si è vista in molteplici episodi storici e che porta inevitabilmente alla bancarotta del paese. L’unico possibile modo in cui questa storia potrebbe finire bene è mediante una forte ripresa della crescita economica. Quando l’economia cresce infatti cresce anche il gettito fiscale. Questo rassicura gli investitori sulla solvibilità del paese e porta a tassi d’interesse minori. Non esiste però alcuna garanzia che l’economia torni a crescere a seguito dell’espansione della spesa pubblica in deficit che i sovranisti richiedono. I tipi di aumento di spesa più popolari, e che quindi è più probabile vengano adottati in caso di allentamento della disciplina fiscale, sono i trasferimenti. Anzitutto un aumento della spesa pensionistica e in secondo luogo misure di sussidio generalizzato come il reddito di cittadinanza. E’ invece molto improbabile che la minore disciplina fiscale venga utilizzata per ridurre la pressione fiscale e per riformare la tassazione in direzione più favorevole alla crescita economica.

 
La conclusione è quindi che un’uscita dall’euro porterebbe al riproporsi esattamente degli stessi problemi a cui si era cercato di sfuggire. La differenza rispetto agli anni Settanta è che ora il livello di debito è assai più elevato. Ci volle un decennio e più di finanza allegra per convincere gli investitori che il debito pubblico italiano era molto rischioso, ma all’inizio degli anni Ottanta il debito era intorno al 60 per cento del pil. Ora che è più del doppio, la reazione degli investitori non richiederà anni ma giorni.

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