Cesare Geronzi (foto LaPresse)

E' il mercato, bellezza

Salvatore Merlo

La fine del capitalismo di relazione all’ombra di un’Opa su Generali. La versione di Geronzi

Roma. Ed è difficile capire se è appena cominciato e sarà epocale, come dicono alcuni, o se il cambio di stagione è già avvenuto, “ora che l’animale è più vulnerabile, e quindi attira più mosche”, come dice invece Cesare Geronzi, il grande vecchio banchiere emerito d’Italia, perché “il capitalismo di relazione è finito, un intero sistema è finito per sempre. Oggi gli imprenditori privati non hanno voglia di confliggere con il mercato. Fanno finanza”. E non si capisce se sia un male o un bene, anche se per Geronzi gli anni d’oro sono quelli del “sistema”, dell’Iri e di Cuccia, degli equilibri e della difesa, dell’identità e della nazionalità, del salotto buono e della grande regia, insomma gli anni degli accordi e delle relazioni tra banche e famiglie del capitalismo, quelli dei grandi architetti di sistema, dunque prima Cuccia, poi Maranghi, poi Bazoli e Geronzi, poi solo Bazoli… E poi? “E poi niente. Guardi i soci privati di Generali”, dice a un certo punto il vecchio banchiere, “guardi Caltagirone, De Agostini, Del Vecchio… Non reagiscono, mentre Generali sta per passare di mano, mentre forse arrivano i francesi, o forse no”. E anche Banca Intesa, che pare sia sul punto di intervenire con una Opas, e di acquisire il leone di Trieste, agisce sul mercato, con un’operazione dalle caratteristiche quasi inedite (moderne?) nel mondo del capitale italiano, “prima c’era una diversa economia, una diversa organizzazione politica, un meccanismo di equilibri per cui nulla era lasciato al caso”, dunque nulla era davvero lasciato al mercato.

 

 

E allora ecco Generali, la compagnia delle assicurazioni, l’immenso portafoglio controllato da Mediobanca – altro nome evocativo di una stagione che forse si è conclusa – ecco la grande riserva dei quattrini cui il sistema delle relazioni italiane ha sempre attinto per affrontare le mille crisi e le controversie finanziarie del capitalismo nazionale – che fosse Telecom o Alitalia, i Btp o lo spread – ecco insomma che le gloriose Generali “sono nude e chi vuole se le prende. Se non cresci, ti comprano”, dice Geronzi, in un soffio. “E con buona pace della nazionalità. E’ il mercato, bellezza”. Così, al termine di questa vicenda dai tratti ancora poco chiari, comunque vada a finire, Generali avrà forse una proprietà, e non sarà più un immenso portafoglio cui attingere nel momento del bisogno, controllato da una manciata di azioni, il soggetto passivo di un potere strategico e operativo che si esprime altrove. E tutto avviene, anzi sta già avvenendo in queste ore, con una di quelle operazioni che attengono alla tecnica finanziaria mondiale, la quale non ha più un’identità. Sarebbe per tutti un conforto intellettuale se ancore avesse un qualche vago senso parlare di sistema, quando ci si riferisce all’Italia, ma alle Opa e alle aquisizioni non si richiede il certificato di residenza né il permesso di soggiorno. 

 

E allora ci sono da una parte Mediobanca, Philippe Donnet e Vincent Bolloré, che vorrebbero portare Generali dentro Axa, compagnia di assicurazioni con sede a Parigi, cui si oppone Banca Intesa, che ha pensato a un take-over per avere il controllo della compagnia, una battaglia che si gioca con moneta sonante, denaro contro denaro, e che vede sullo sfondo gli investitori privati, con piccole quote, Leonardo Del Vecchio, Francesco Gaetano Caltagirone e il gruppo De Agostini, tutti poco interessati a mantenere le loro azioni, e probabilmente molto attratti, invece, dalla possibilità di vendere, e fare un buon ricavo, a chiunque sia, italiano o francese, non importa. E infatti Del Vecchio, il magnate della Luxottica, entrò in Generali ai tempi di Mario Greco, e da anni è scontento dell’investimento, aveva puntato su un altro management. Caltagirone, il gran costruttore romano, entrò invece pensando di poter manovrare sugli investimenti immobiliari di Generali, ma l’operazione non ha funzionato come credeva. E De Agostini, infine, è socio in Generali solo perché vendette alla compagnia del Leone le assicurazioni Toro, ricevendo in cambio anche delle azioni di Generali, e si ritrova dunque dentro una partecipazione quasi senza scopo.

 

Persino Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, aveva manifestato la volontà di ridurre la sua partecipazione. E insomma l’azionariato di Generali è indifferente all’operazione che si sta compiendo in Borsa, accompagnata da rialzi del titolo, speculazioni (su cui adesso sta indagando la Consob), e strategie da gioco del poker finanziario, come l’acquisto del 3 per cento di Intesa da parte di Mediobanca, vecchia tecnica di Cuccia, “se hai uno che ti assale, tu compri per primo le sue azioni e lo obblighi a farti una Opa”. E così tutto prende la forma di un’operazione di mercato, che si colora di insignificanti dettagli personali – la rivalità tra Medio Banca e Intesa, tra Nagel e Micciché, conflitti decennali che risalgono ai tempi di Corrado Passera – e in cui la politica a quanto pare non ha toccato palla, senza regie, accordi sottobanco, scambi di potere, accordi all’ombra di un salotto, mentre solo sui giornali le parole stanno invece tutte friggendo dentro il concetto di “italianità” e dentro il suo complicato e vasto status culturale, economico e politico. Ma l’italianità non interessa a nessuno, questa è la verità, Intesa interviene solo perché intende modificare il suo modello di business, vuole sviluppare cioè gli affari nelle polizze assicurative “vita”, che garantiscono commissioni e margini di guadagno a una banca che – come le altre – trova sempre più difficile il mercato del credito.

 

E insomma se alla fine i francesi dovessero uscire battuti non sarà stato per una manovra di protezione, di sistema, orchestrata in quelle camere di compensazione che un tempo legavano i governi, i partiti, le famiglie del capitale e le banche. Ma al contrario, in questo nuovo gioco, persino i francesi sconfitti, persino loro – persino Mediobanca che li sostiene – avranno di che gioire, in una logica in cui contano i denari e il profitto. E infatti Nagel, l’amministratore delegato di Mediobanca, farebbe circa tre miliardi di cassa, qualora Intesa lanciasse una Opas su Generali. E allora “il sistema italiano non esiste più, quello francese sì. E aggredisce il nostro ventre molle”, dice Cesare Geronzi, in tono di aperta rivendicazione, e forse di rimpianto, lui che descrive così un mondo perduto che però non si sa se va davvero rimpianto come l’età dell’oro della sicurezza, o se invece questo passaggio d’epoca va al contrario segnalato festeggiando l’ingresso dell’Italia nella modernità. Perché in questa vicenda di Generali, come nella recente acquisizione francese di Telecom, non c’è la marginalità del capitale italiano, o forse non c’è solo la marginalità del capitale italiano, ma c’è forse soprattutto la fine di un equivoco antistorico, quello dell’identità, un termine al quale siamo abituati ad associare un alto valore, ma che ha soffocato la crescita, un termine la cui crisi non riguarda l’Italia ma sta sconvolgendo il mondo e ha già segnato il secolo. 

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.