Le lagne di Confindustria su Luxottica

Renzo Rosati

Del Vecchio scrive un manifesto del buon capitalismo, il Sole lo ignora

Roma. Che cosa può ragionevolmente aspettarsi uno dei maggiori imprenditori italiani, uno che non ha mai chiesto sussidi pubblici, che ha appena concluso un accordo mondiale (con la Francia che sovente ci sbatte porte in faccia!) che gli dà il controllo del maggior player globale del settore – accordo applaudito da un giornale spesso con il birignao come il Financial Times –, insomma che cosa si attende di leggere questo signore sul quotidiano istituzionale degli industriali nazionali? Due righe di apprezzamento? Macché. Leonardo Del Vecchio, l’81enne proprietario di Luxottica, ha spiegato sul Corriere della Sera, in edicola ieri, di aver realizzato con la fusione con la francese Essilor “il sogno di una vita” e si è rifiutato di fare inutili riferimenti alla nazionalità aziendale perché “siamo tutti europei, ma è soprattutto il mercato a essere globale”. Ma ieri chi ha aperto il Sole 24 Ore vi ha trovato un pensoso e critico editoriale del direttore Roberto Napoletano dal titolo “La questione irrisolta del capitalismo italiano”. Ovvero, quello che per tutti gli analisti – e l’articolo ne dà conto nelle prime righe – diviene il campione mondiale dell’occhialeria, mettendo assieme due aziende complementari (Luxottica leader delle montature, Essilor delle lenti), con 50 miliardi di capitalizzazione, 140 mila dipendenti, vendite in 150 paesi, è, per il quotidiano della Confindustria, “il frutto (amaro) di un capitalismo familiare italiano tanto geniale quanto spesso incapace di superare l’ultimo miglio. Cioè di dotarsi di una governance stabile all’altezza delle sfide che ha davanti”.

 

 

Invece la fusione Essilor-Luxottica è l’apice professionale di Del Vecchio ed è un manifesto del capitalismo, di come dovrebbe essere (e di più) quello italiano che Confindustria, appunto, vuole rappresentare. E’ una fusione che non ha paura del mercato globale né delle tanto e spesso a sproposito temute barriere tra Francia e Italia, paragonandola ai timori protezionisti anti Vivendi che attanagliano Mediaset facendone un caso anche politico. E così l’hanno valutata molti altri, non solo il Ft ma per dire Giuseppe Recchi, presidente di Telecom, che la definisce “un’operazione fantastica, il capitale non ha passaporto”. Ma sul giornale confindustriale ce l’ha, eccome. Scrive: “Luxottica paga il conto di non essersi trovata nelle condizioni di non avere un manager forte per guidare la società nei prossimi anni. Non vorremmo che il copione si ripetesse presto con altre grandi firme del Made in Italy”. Alt. Di che cosa stiamo parlando? E’ noto, e il 24 Ore non manca di ricordarlo, come dopo l’uscita di Andrea Guerra l’azienda abbia più volte cambiato l’amministratore delegato, mentre Del Vecchio assumeva tutti i poteri.

 

Qui però sono in ballo capitali azionari: capitali italiani che controlleranno un conglomerato italo-francese (o franco-italiano, fate voi) con una maggioranza del 31-38 per cento in quella che finora è stata una public company con maggiori azionisti i dipendenti (4 per cento), e avrà per giunta come secondo partner Giorgio Armani. Forse in futuro ci sarà un ad con residenza parigina, come oggi la Fca degli Elkann-Agnelli ha un top manager, Sergio Marchionne, italiano di nascita e di lingua, ma canadese di passaporto e globale di mentalità. E proprio questa è stata la fortuna di un’azienda data per spacciata che oggi rappresenta grande parte del pil e dell’occupazione nazionale. Così come continuerà a farlo Luxottica. Nessuno si stupisce (anzi) se Unicredit e Generali, campioni tricolori, hanno due ceo francesi, se Deutsche Bank ha affidato il proprio risanamento a un amministratore delegato inglese (John Cryan) e se la Bank of England è guidata da un canadese (Mark Carney).

 

Allora la domanda da rivolgere al 24 Ore è: erano meglio le vendite in blocco, capitali, management e stabilimenti, fatte in passato agli stranieri delle migliori firme dell’imprenditoria italiana? Lucchini, Merloni, Pininfarina, tutti ex presidenti della Confindustria. O meglio di Carlo Pesenti, che della Confindustria è stato vicepresidente e autore di una ponderosa riforma dello statuto, erede di una dinastia del cemento, che ha spaziato dalla finanza all’editoria, fino a vendere la Italcementi alla tedesca Heidelberg? Certo, un problema di management esiste. Come però esiste all’estero: per dire, Carlos Ghosn, brasiliano, ha tirato fuori dai guai la franco-nipponica Renault-Nissan. Forse, come molti liberisti a parole, il quotidiano della Confindustria ha deciso di sposare il protezionismo à la Donald Trump?