Il liberismo tornerà di moda

Claudio Cerasa

Effetto del protezionismo trumpiano: moltiplicazione dei profeti del libero mercato. Ragioni per essere ottimisti

E se invece provassimo a essere ottimisti? Per chi crede nel libero mercato, nella globalizzazione e nella libera circolazione delle merci – quest’ultima poi da sempre coincide con la libera circolazione degli individui, delle idee, della ricchezza, del temibilissimo dio denaro e dunque del benessere economico – il 2016 è stato oggettivamente un anno da incubo e il 2017 se possibile è cominciato peggio: Donald Trump è diventato presidente degli Stati Uniti sulla base di una piattaforma programmatica protezionista che forse si rivelerà pro business ma difficilmente pro mercato; la Gran Bretagna è uscita dall’Unione europea per limitare la libera circolazione degli individui sul suo territorio; l’Ungheria e la Polonia hanno visto consolidarsi anche dal punto di vista economico governi dal profilo marcatamente illiberale; la Turchia, dopo anni di crescita economica, si è ritrovata con un’economia che è entrata in crisi a un ritmo direttamente proporzionale alla contrazione della sua democrazia; in Europa l’accordo commerciale con gli Stati Uniti non gode di buona salute; in Italia il tentativo di rivoluzione liberale si è schiantato contro un palo piuttosto rigido chiamato referendum costituzionale; e come se non bastasse il 2017 si è aperto con una specie di momento troll, ovvero con la Cina (dicesi la Cina) che si è presentata a Davos (dicesi Davos) prendendosi la scena e dichiarando il suo amore sincero, puro e cristallino per le grandi virtù veicolate dalle frontiere aperte e dal libero mercato (dicesi la Cina).

 

Alla luce dello scenario descritto – nutrendo delle perplessità non ideologiche sul fatto che il grande Antonio Tajani possa dimostrare di essere il nipote illegittimo di Margaret Thatcher (nonostante la comune passione per la monarchia) – chi crede nel libero mercato oggi si ritrova dunque di fronte a un percorso piuttosto chiaro: deprimersi di fronte all’inevitabile fine del mondo e trasferirsi in Cina forte della convinzione che Xi Jinping a Pechino sia la traduzione letterale di Francesco Giavazzi; o provare a guardare l’anno che sarà, utilizzando una chiave di lettura gustosa e non pessimistica.

 

Una chiave che a Davos non ha trovato una grande cittadinanza (quando sono in difficoltà le élite tendono a fasciare i propri portafogli nel cilicio) ma che potrebbe essere la strada giusta da seguire per capire perché lo tsunami Trump potrebbe essere il detonatore di un fenomeno straordinario perfettamente sintetizzato con queste parole dal Financial Times in un bellissimo editoriale pubblicato il 7 gennaio 2017: e se in realtà stessimo assistendo a un improvviso risveglio della cultura liberale? Detta in modo più semplice: con l’arrivo di Trump, la globalizzazione è finita e rinasce il protezionismo o con la rinascita del protezionismo rinasce la globalizzazione?

 

Non è uno scioglilingua o un gioco di parole, ma una riflessione quasi naturale che scaturisce da una dinamica forse inevitabile: vuoi per ragioni strumentali, vuoi per ragioni di carattere culturale, alla fine il fronte politico-internazionale che cercherà di presentarsi con una piattaforma economica alternativa a quella dell’internazionale del trumpismo non potrà che seguire un ragionamento simile a quello esposto non proprio da un campione del liberismo come l’economista (e Nobel) Joseph Stiglitz, che dopo aver sostenuto negli ultimi mesi la lungimiranza culturale, nell’ordine, di Thomas Piketty, di Alexis Tsipras, di Yanis Varoufakis, di Pablo Iglesias (“Me pareció muy inteligente y pragmático”), di fronte a Trump ha riscoperto i valori dell’economia liberale. Sentite cosa ha detto.

 

“Il protezionismo – ha detto Stiglitz due giorni fa a Davos – è un disastro per il mercato del lavoro e potrebbe avere un impatto di 1,5 punti di pil nei prossimi 15 anni”. E la linea Stiglitz (dicesi Stiglitz) è stata declinata ieri anche dal primo ministro svedese, un ex sindacalista, che sempre a Davos (Camusso lo perdoni) ha detto che “il protezionismo non è la risposta e solo il libero scambio aiuterà le economie a crescere e a superare il momento di oscurità offerto dal crescente numero di politici che si oppongono al free market”.

 

La dinamica è chiara e, a meno di non credere, come Jeremy Corbyn o come Bernie Sanders (non citeremo Papa Francesco), che il male del mondo sia la globalizzazione cattiva che ha infettato il mondo con il temibilissimo dio denaro, l’unica alternativa possibile all’internazionale economica del trumpismo non può che essere il suo opposto: l’apertura dei mercati, il trionfo del liberismo. Da un certo punto di vista, dunque, la rivoluzione del trumpismo, sommata all’ondata di ideologia neo protezionista che potrebbe avere una sua dimensione importante nel corso del 2017 in tutta Europa, potrebbe avere questo effetto a sorpresa: non il sonno della globalizzazione ma un suo risveglio. La classe politica (di destra e di sinistra) sarà costretta a prendere una posizione (con Trump o contro Trump, con Le Pen o contro Le Pen, con Salvini o contro Salvini) e chi non vuole essere travolto dall’onda trumpiana non potrà che schierarsi in modo convinto e senza sfumature a favore del libero mercato.

 

“Le economie del pianeta – ha detto qualche tempo fa Agustín Carstens, combattivo banchiere centrale del Messico – stanno diventando più protezioniste sotto la pressione del calo della crescita e dei profitti delle industrie e la miscela di più nazionalismo e più protezionismo rischia di farci tornare a una situazione che il mondo non ha più vissuto dagli anni Trenta”. Non sarà facile ma alla fine di quest’anno (se l’Europa risponderà alla Brexit aprendo ancora di più i suoi mercati e se la Gran Bretagna risponderà alla Brexit aprendosi ancora di più al mondo) potrebbe capitare anche quello che in pochi oggi riescono a vedere: scoprire cioè che grazie al neo protezionismo i liberali potrebbero smetterla di aver paura della propria ombra e risvegliarsi tutti insieme da un lungo letargo che forse è la vera causa dell’ascesa del pensiero opposto.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.