Oxfam, la regina delle incoerenze eque e solidali

Stefano Basilico

Dai prezzi delle certificazioni alle agevolazioni fiscali, passando per le posizioni anti-israeliane. Silenzi, imbarazzi, scivoloni e controindicazioni della Ong che lotta contro le disuguaglianze

Oxfam da alcuni anni a questa parte, a ridosso del forum di Davos, rilascia un report sulle disuguaglianze. Già l’anno scorso Luciano Capone sbugiardò la metodologia della ricerca che, basandosi sul criterio di ricchezza netta, presenta una visione distorta della realtà. L’ong ha un nutrito almanacco di polemiche di cui vantarsi.

 

Uno dei fattori di imbarazzo frequenti è stato il marchio equo-solidale. Nel 2007 due accademici australiani rilevarono che il prezzo della certificazione equo-solidale ($ 3200), promossa da Oxfam, non permetteva ai produttori di caffè di pagare in maniera adeguata gli agricoltori. Secondo Wilson e Davidson il sistema di prezzi fissi è insostenibile e il libero mercato garantirebbe maggiori introiti ai coltivatori. I giudici hanno lasciato cadere l’accusa, dicendo però di non potere “interpretare i principi dell’equo-solidale”.

 

Nel 2013 un report di Oxfam in Nuova Zelanda costrinse la multinazionale della frutta Dole a togliere l’etichetta “scelta etica” dalle sue banane, a causa delle condizioni di lavoro nelle piantagioni filippine. Dole acconsentì per trasparenza, ma il suo manager Steve Barton denunciò imprecisioni nell’indagine e dichiarò che la denuncia fosse in realtà dettata dalla volontà di imporre il brand “Fair Trade”.

 

Peccato la stessa equità predicata all’estero non venga praticata in patria. L’ONG nel 2012 era il terzo più grande venditore di libri nel Regno Unito, grazie ai suoi charity shop. Lo Spectator parlò di “Amazon dell’high street”, dato che con tattiche di mercato da esperti turbocapitalisti, i negozi di Oxfam stavano buttando fuori dal giro piccoli concorrenti locali e rivenditori di libri usati. Utilizzando volumi donati, il lavoro dei volontari e con grandi vantaggi fiscali non è poi così difficile.

 

Eppure ad Oxfam dovrebbero piacere le tasse, dato che spesso e volentieri si scaglia contro i paradisi fiscali, sempre in nome dell’uguaglianza. Un paradosso dato che, svelò Private Eye nel 2014, Marjorie Scardino, membro del consiglio di gestione della stessa Oxfam, era al tempo stesso ceo di Pearson PLC, gigante dell’editoria con parecchi interessi offshore.

 

 

L’organizzazione di Oxford ha subìto molte critiche anche per la sua policy sul conflitto arabo-israeliano. Sebbene a parole sostenga l’ipotesi dei due stati, nei fatti è smaccatamente filopalestinese. Nel 2014 dovette cancellare una mostra su Gaza in una moschea londinese, poiché si scoprì che uno dei promotori, Ibrahim Hewitt, era un estremista. Pochi giorni dopo Scarlett Johanson abbandonò l’ONG, per le critiche ricevute a causa del suo ruolo di testimonial per l’azienda israeliana SodaStream, che opera anche nella West Bank.

 

Tra un attacco alla disuguaglianza, un evento contro Israele, qualche polemica equo-solidale e una scudisciata ai paradisi fiscali, Oxfam trova il tempo per scivoloni e incoerenze.

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