Susanna Camusso (foto LaPresse)

L'ipocrisia di Camusso sui voucher

Giuliano Cazzola

Nella propaganda sono “pizzini”, nella realtà la Cgil usa i voucher per pagare i suoi dipendenti

"Essere nel mondo, ma non del mondo’’. Il precetto non vale solo per i cristiani, ma anche per  la Cgil. Così, è il caso di avvalersi di uno strumento pratico, semplice e corretto per retribuire delle prestazioni occasionali di propri attivisti, specie se si tratta di pensionati che garantiscono  la presenza del sindacato nelle sedi periferiche. Un tempo queste prestazioni venivano retribuite brevi manu. Poi si è ritenuto che fosse meglio mettersi in regola attingendo ai rapporti di collaborazione, fino a quando i limiti di legge ne hanno reso complicato l’uso. I voucher, allora, sono sembrati la soluzione, almeno fino a quando la palingenesi referendaria non avesse fatto giustizia. Così, sorpreso da un gagliardo scoop giornalistico a contaminarsi maneggiando voucher per retribuire una cinquantina di militanti , il segretario dello Sindacato pensionati di Bologna Valentino Minarelli ha dichiarato:  ‘’a Bologna siamo costretti ad usarli, ma vogliamo abolirli’’.

 

Non spiega, però, quale sia la natura di tale dolorosa costrizione – se non un’evidente ragione pratica – dal momento che in Cgil sostengono che, anche nel caso di abolizione dei famigerati buoni lavoro, ci sarebbero, comunque, nell’ordinamento vigente, tante modalità per remunerare il lavoro accessorio. È fin troppo ovvio immaginare che il caso di Bologna non sia un’eccezione e che il problema non riguardi anche gli altri sindacati (ma almeno i dirigenti della Cisl e della Uil non si sono mai spinti, come Susanna Camusso, a definire ‘’pizzini’’ i voucher). Si è scoperto, poi, (ma anche in questo caso si tratta della punta di un iceberg) che anche Amministrazioni comunali border line, come quelle di Napoli e Torino (ma non sono le sole), utilizzano i buoni lavoro per pagare prestazioni saltuarie ed occasionali, un tempo definiti  LSU (lavori socialmente utili). La verità è contro i voucher si consuma l’ennesima caciara ideologica come furono quelle, nell’ordine, contro il c.d. lavoro in affitto, i call center (erano considerati delle Cayenne, mentre adesso si difendono quei posti di lavoro che non sono ancora emigrati), le collaborazioni, le partite Iva. A proposito, nei giorni scorsi il Governo del conte Gentiloni Silverj si è vantato di aver mantenuto in servizio i precari della pubblica amministrazione. Che cosa era successo?

 

Un decreto applicativo del jobs act aveva vietato alla pubblica amministrazione di ricorrere, a partire dal 2017, ai contratti di collaborazione. Perciò i rapporti in scadenza alla fine del 2016 non potevano essere rinnovati. Così la norma fatidica è finita in freezer. Ma le stranezze non finiscono qui. Torniamo di nuovo sui voucher. Secondo stime consolidate dell’Istat quasi 5 milioni di italiani che hanno un doppio lavoro. Il secondo lavoro, in tempi di crisi, per molti è diventato una necessità, per il bisogno di integrare un reddito che è sempre più scarso. Nell'esercito dei doppiolavoristi, poi, vi sono anche dei cassintegrati o persone in mobilità, il cui assegno mensile è a sua volta decurtato. La maggior parte dei lavoratori con doppio lavoro sta nei servizi, con oltre 3,5 milioni di persone che svolgono attività plurime, un valore dieci volte superiore a quello dell'industria, che registra 340mila doppiolavoristi ufficiali. Sono invece quasi 900 mila nell'agricoltura, in cui prevalgono anche gli auto-produttori, cioè coloro che lavorano la terra per gli altri e in più hanno anche un loro orto da accudire. Ma quelli del secondo lavoro e del sommerso si trovano nel commercio, negli alberghi, nei pubblici esercizi e nei trasporti, che insieme fanno salire la percentuale a quasi il 80%. Sono soprattutto trasporti e comunicazioni (quasi un lavoratore su due) e alberghi e pubblici esercizi (con il 42% di doppio lavoro) le praterie dei secondo-lavoristi. Come si può vedere, si tratta di settori in cui lavoro doppio e nero coincidono più facilmente.

 

Negli alberghi, nei ristoranti e nei bar i doppiolavoristi sono 900 mila (2,1 milioni di posizioni lavorative contro 1,2 milioni di occupati). Nel lavoro domestico in famiglia quasi due terzi degli occupati ha un secondo lavoro e la stessa percentuale del 65% riguarda il lavoro irregolare. Ma se colf e badanti sono protagoniste per necessità, dovendo arrotondare con più datori di lavoro, anche il pubblico impiego non scherza, in considerazione del tempo libero di cui dispone. Nelle costruzioni, poi, la percentuale di doppiolavoristi ufficiali è solo del 13%. Questi dati – ad avviso di chi scrive - contribuiscono a spiegare in grande parte il fenomeno della crescente diffusione dei voucher, come progressiva regolarizzazione di queste attività, grazie proprio alla flessibilità del buono lavoro. Non è un caso, infatti, che sia il secondo lavoro che la diffusione dei voucher si concentrino più o  meno nei medesimi settori.  Quando non sono in nero come è pensabile che vengano retribuiti  tali  lavori? 

 

E’ assolutamente plausibile che le due platee si giustappongano in larga parte. Ma nessuno lo dice. Le statistiche periodiche dell’Inps  evidenziano che sono in aumento i licenziamenti disciplinari (per motivi soggettivi o per giusta causa). L’Istituto fornisce anche un spiegazione per questo fenomeno, ma i commentatori e i media preferiscono non approfondire e salvarsi in corner attribuendone la responsabilità al jobs act e segnatamente al contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti che rende più facile, appunto, licenziare. L’Inps, invece, ha fornito una spiegazione che è stata ben presto avvolta dalla nebbia, dal momento che sembrava politicamente più corretto incolpare il famigerato jobs act.  I  licenziamenti per giustificato motivo e per giusta causa sono aumentati per colpa di una norma cretina sulle c.d. dimissioni in bianco. Sia chiaro: quella di far firmare ai lavoratori  (e in particolare alle lavoratrici) una lettera che il datore potrà usare, a suo discrezione, come atto di dimissioni  (evitando così  le procedure del recesso) è una prassi disonesta, infame e meritevole di essere contrastata in ogni modo. 

 

Con buon senso, però; come aveva provveduto a fare la legge n.92/2012 (la riforma Fornero del mercato del lavoro). Perché avessero effetto  le dimissioni dovevano essere date in una sede "protetta" (sindacale, amministrativa, ecc.),  con modalità trasparenti e come espressione della libera volontà del lavoratore. In caso contrario (ovvero in mancanza degli adempimenti previsti)  il rapporto di lavoro continuava a sussistere. Veniva tuttavia tutelato anche il datore di lavoro per i casi in cui il dipendente (capitava con molti stranieri) non seguisse le procedure stabilite o non si presentasse più in azienda.

 

Il datore poteva "metterlo in mora"  invitandolo a rientrare al lavoro entro  un certo periodo,  trascorso inutilmente il quale il rapporto si intendeva risolto. In questa legislatura le Erinni del Parlamento hanno preteso di ripristinare una disciplina, abrogata a suo tempo del Ministro Maurizio Sacconi, che si era rivelata funesta. Per dare le dimissioni il lavoratore doveva  scaricare e compilare un apposito modulo dal sito del Dicastero del Lavoro. Senza neppure prendersi la briga di monitorare gli effetti delle norme della legge n.92, si è voluto tornare a quella impostazione.  Ma se uno non segue  la  procedura informatica  che cosa succede? Che il rapporto non si scioglie e che il datore deve licenziare il soggetto per assenza continuativa ed ingiustificata. In sostanza è costretto ad avvalersi del potere disciplinare, con tutti i rischi  che comporta un licenziamento (l’impugnazione, l’esame del giudice, il risarcimento) oltre al pagamento della ‘’tassa’’ prevista. Il lavoratore, inoltre, potrebbe fruire della Naspi. Venenum in cauda, la Suprema Corte di Cassazione si è permessa di scrivere in una recente sentenza che è legittimo il licenziamento di un lavoratore se motivato  con l'intento di realizzare "una organizzazione più conveniente per un incremento del profitto". Non avesse osato farlo. Il profitto, in Italia, è lo ‘’sterco del diavolo’’. La possibilità di licenziare, come prevede la legge, per ‘’ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa’’, può valere soltanto – sostengano infuriate le ‘’anime belle’’- se l’azienda è in crisi. Ma il profitto non è il fine di quell’attività economica organizzata che si chiama impresa? 

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