Sergio Marchionne (foto LaPresse)

Ipocrisia anti Fiat

Renzo Rosati

I giornaloni censurano o criticano senza senso il successo dell’Auto in Italia perché merito di Marchionne

Roma. Confermando le anticipazioni del Foglio, Mediobanca ha diffuso un report su Fiat Chrysler Automobiles (Fca) rilanciando l’ipotesi di fusione con General Motors (Gm), proprio come ricaduta dell’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump: “Il cui approccio potrebbe vedere con favore la nascita di un campione nazionale”, e l’azienda italo-americana sarebbe il partner ideale e complementare per la Gm. Eguale previsione per lo scorporo dal gruppo delle supercar e delle berline premium: oltre a Ferrari, già quotata, anche Maserati e Alfa Romeo, con il marchio Jeep che potrebbe farne parte oppure costituire l’asset più pregiato da mettere sul tavolo di una eventuale trattativa con Gm.

 

In entrambi i casi Sergio Marchionne, seppure non riuscisse a imporsi come compratore a una manager altrettanto tosta come Mary Barra, numero uno di Gm, avrà conseguito mentre volge al termine (2018) il suo mandato un successo impensabile per la Fiat di pochi anni addietro: rendere l’azienda presa sull’orlo del fallimento un player appetibile a livello globale, magari co-protagonista delle prime grandi nozze automobilistiche del Millennio. Ma più importante dal punto di vista del sistema economico italiano è la rivoluzione produttiva realizzata in cinque anni nelle otto fabbriche in Italia, che molti media faticano a riconoscere. Per capirla occorre ricorrere alle cifre diffuse dalla Fim-Cisl: a fine 2012, esclusi i veicoli commerciali, l’80 per cento delle auto prodotte era di fascia bassa; e solo il 20 del segmento medio-alto.

  

Nel 2012 uscirono dagli stabilimenti Fiat 402.316 automobili, delle quali 321.515 di fascia bassa, sulle quali non solo l’azienda guadagna meno ma l’intero ciclo produttivo è meno qualificato, il che riguarda i dipendenti. La produzione medio-alta fu di appena 80.801 macchine. Il consuntivo 2016 parla di 1.011.136 veicoli (inclusi i commerciali che in crescita fra i 200 e i 300 mila) e le auto premium e sportive sono il 59 per cento, ovvero 428.704. Rispetto alle 80 mila del 2012, cinque volte e mezzo di più. La proporzione 20 a 80 si è quasi ribaltata, e la tendenza si rafforzerà con l’entrata in produzione a regime della nuova gamma Alfa Romeo.

 

Bisogna guardare a questi numeri e percentuali quando si valutano le performance del modello Marchionne per l’Italia. Se nel 2012 le fabbriche Fiat potevano produrre meno di 100 mila automobili degne del mercato e di una concorrenza spietata, e adesso siamo verso il mezzo milione, lo si deve al rovesciamento produttivo e qualitativo che nasce a sua volta dalla rivoluzione nella contrattazione sindacale, portata a livello aziendale e di stabilimento, con zero consociativismo ma premi di produttività e qualità. Premi che vanno dai 980-1.600 euro per il marchio Fiat ai 5.000 alla Ferrari. Una volta ribaltato il tavolo e soprattutto costumi vecchi di decenni, l’azienda ha poi assunto 3 mila dipendenti negli ultimi due anni, e ha avviato le procedure di assunzione per altri 1.800 all’Alfa. Non stupisce che il risultato non soddisfi il sindacalismo conservatore, quello che denunciò Marchionne alla Corte costituzionale: “Marchionne aveva promesso di saturare la produzione, ma ancora non ci siamo”.

 

Ma lascia egualmente interdetti, per dire, i lettori del Fatto quotidiano. Siamo del resto in area Grillo e dintorni. Esempi: “Il piano Marchionne prevedeva la piena occupazione entro il 2018” (siamo a gennaio 2017); “Quanti piani ha già fatto e disfatto Marchionne? Ma per favore…”; “Marchionne avvita le 500 X e Renegade in Basilicata, le Giulia e Giulietta in Ciociaria, le Panda alla periferia di Napoli”. Tranquilli: Marchionne probabilmente l’anno prossimo lascerà il suo posto (e tocchiamo ferro che la Fiat non torni quella di prima). La semina di Travaglio (e dei suoi derivati) invece ci allieterà ancora a lungo. 

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