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Il dito della deflazione italiana e la luna dell'inflazione europea. Cosa deve preoccuparci di più?

Luciano Capone

L’aumento del costo dell’energia e il cambio di politica della Bce fanno più paura della deflazione

Roma. Con il terrore da deflazione se non siamo strettamente nel territorio delle fake news, siamo ai suoi confini. Gran parte dei media e dei commentatori ha lanciato l’allarme per i dati provvisori dell’Istat sui prezzi al consumo, che segnano per il 2016 una variazione negativa dello 0,1 per cento: “Italia in deflazione, non accadeva dal 1959”, “Un calo dei prezzi su base annuale non accadeva da 57 anni”. La notizia – messa così e con questo paragone storico – non sarebbe neppure così male, visto che all’epoca l’Italia era in pieno boom economico e cresceva a tassi annui del 6-7 per cento (a dimostrazione che deflazione non è sinonimo di recessione, anzi). Il timore questa volta è che uno choc deflattivo trascini l’economia in una spirale in cui l’aspettativa di una riduzione dei prezzi crea una spinta a posticipare i consumi, che a sua volta porta a una riduzione dei ricavi delle aziende, degli stipendi e dell’occupazione e gli imprenditori a rimandare gli investimenti.

C’è quindi per l’Italia un serio pericolo deflazione? Partiamo dai dati. Secondo l’Istat la variazione negativa (più 0,1 per cento) dell’indice generale dei prezzi al consumo è causata principalmente “dalla componente riconducibile ai beni energetici, che hanno chiuso il 2016 con un marcato arretramento rispetto al 2015” (meno 5,6 per cento). E infatti l’inflazione core, quella calcolata al netto degli alimentari e dei prodotti energetici, rimane invece positiva (più 0,5 per cento). Per un paese importatore di energia come l’Italia è importante tenere distinti i due indici e guardare alle loro dinamiche, più che soffermarsi sul segno positivo o negativo del livello generale dei prezzi.

 

 

Se l’abbassamento dei prezzi dei beni energetici per l’Italia non può che essere una buona notizia, perché rende il nostro sistema produttivo più competitivo, ciò che dovrebbe preoccupare è l’altro pezzo, ovvero la bassa crescita dell’inflazione core, che riflette le debolezze strutturali dell’economia: domanda bassa, redditi che ristagnano, scarsa produttività. Alla luce di questi problemi se – come tutte le previsioni indicano – l’anno prossimo usciremo dalla deflazione, non è detto che sarà una buona notizia. Già l’Istat dà un’indicazione della dinamica dei prezzi con i dati di dicembre 2016 che registrano una crescita dei prezzi dello 0,5 per cento. Il problema è che l’aumento dell’inflazione nell’ultimo mese dell’anno è dovuto principalmente al rialzo del costo dell’energia (trasporti più 2,6 per cento, carburanti più 2,4 per cento). Questa mini fiammata inflattiva dovrebbe forse preoccupare di più della deflazione che ormai pare essere alle spalle, soprattutto se si allarga lo sguardo a ciò che accade in Europa.

Secondo i dati diffusi mercoledì dall’Eurostat, il tasso annuo d’inflazione nell’Eurozona è salito all’1,1 per cento a dicembre (quasi il doppio del più 0,6 per cento di novembre), raggiungendo il livello più alto da tre anni a questa parte, trascinato all’insù proprio dall’aumento del costo del petrolio (l’energia fa segnare un più 2,5 per cento). Le conseguenze possono essere negative e di due tipi. Una riguarda gli effetti diretti che un aumento dei prezzi di questo tipo può avere su un sistema rigido come quello italiano in cui, a differenza di altri paesi con mercati più flessibili, i prezzi di molte utility sono gestiti politicamente e quindi con meno capacità di adattamento. L’altra, più rilevante, riguarda i possibili cambiamenti di politica monetaria della Banca centrale europea (Bce). Seppure l’aumento dei prezzi dell’1,1 per cento è lontano dal target del 2 per cento della Bce, l’aumento dell’inflazione – che in Germania è all’1,7 per cento – indebolisce la posizione di chi vuole che Mario Draghi prosegua con il denaro facile e rafforza quella dei tedeschi che chiedono politiche monetarie più restrittive. Sarebbe una colpo duro per i nostri conti pubblici. Ecco perché, più che guardare al dito della deflazione italiana, è più opportuno buttare un occhio alla luna dell’inflazione europea e agli effetti di marea che provocherà sulla Bce e sui tassi. 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali