Tutti i numeri del ragionevole ottimismo dell'Istat per il 2017

Renzo Rosati

Le speranze del manifatturiero e la fiducia dei consumatori. Ma soprattutto dollaro forte e meno sanzioni

Roma. “Si delinea una prospettiva positiva del ritmo di crescita dell’economia nei prossimi mesi”. Non è frequente che l’Istat si sbilanci, come ha fatto nelle ultime ore del 2016, sulla ripresa del pil, finora piuttosto modesta e in ritardo rispetto alla media europea, Germania in testa. Ma l’istituto di statistica vede un po’ più rosa, e adesso se ne precisano i motivi. Intanto l’aumento degli ordini nel settore manifatturiero e il miglioramento del clima di fiducia dei consumatori, che a dicembre è salito da 127,6 a 133,8 punti per le aspettative economiche del paese, e da 113,8 a 116,2 per la previsione personale futura. Diversa la situazione per le imprese, la cui fiducia scende tra 2 e 4 punti nei servizi e nelle costruzioni, mentre sale per manifattura e commercio. Tutti questi dati combinati lasciano prevedere che l’industria possa ridurre il gap tra fatturato interno ed estero. Attualmente il primo ristagna intorno ai 90 punti, il secondo è oltre 120. La ripresa dei consumi, a sua volta determinata da una maggiore fiducia, può appunto riaprire il mercato interno, anche in misura consistente visti quei 30 punti di differenza. L’indicatore Istat è quello che anticipa il ciclo economico: fin qui, dopo lo 0,3 per cento di crescita del pil nel terzo trimestre, la crescita acquista per il 2016 è dello 0,8, che potrebbe anche salire allo 0,9 nel consuntivo 2016. Per il 2017 “è ragionevole prevedere”, dicono all’Istat, che si possa puntare all’uno per cento, la stima del governo. Un’accelerazione minima che però significa l’abbandono dei decimali dopo il biennio 2010-2011 (crescita di poco superiore al 2 per cento), seguiti tuttavia al crollo del 3,6 del 2009. Appunto a differenza dei saliscendi del passato recente, gli esperti parlando ora di crescita durevole sia pure ancora insufficiente. Ma al di là dei fattori interni legati alle aspettative delle famiglie, ce ne sono altri due esterni.

 

Il primo è il rafforzamento del dollaro sull’euro, che favorisce le esportazioni non solo in America ma anche in tutta l’area influenzata dalla moneta Usa: Gran Bretagna, Oriente e mondo arabo. Quest’ultimo beneficia inoltre dell’aumento del prezzo del petrolio. Entrambi, super-dollaro e super-greggio, dovrebbero restare tali nel medio periodo. Nel primo caso per il programma di “tapering”, il rialzo dei tassi d’interesse programmato dalla Federal Reserve per tutto il 2017. Mentre l’Europa vede ancora un euro sottoposto all’alimentazione assistita dei tassi sottozero e dei crediti facili della Banca centrale europea. Ieri l’euro ha chiuso poco sopra 1,04 sul dollaro, con una svalutazione che in un anno ha già raggiunto l’8 per cento. La maggior parte degli analisti prevede che nell’anno appena iniziato si arriverà alla parità, e secondo l’economista tedesco Daniel Gros, direttore del Centre for European Policy Studies (Ceps), l’Italia potrà beneficiarne in misura migliore rispetto ad altri paesi europei: “Fino a tre volte più della Germania” dice “in quanto l’economia americana si avvicina alla piena capacità produttiva e quindi dovrà ricorrere alle importazioni; ma più che di beni durevoli e strumentali, per i quali Donald Trump vuole adottare un politica protezionistica, per il tessile, l’arredamento, l’abbigliamento, l’alimentare”.

 

Il classico Made in Italy, insomma; mentre per l’export della manifattura entrano in gioco due altri fattori: il petrolio e il possibile allentamento delle sanzioni alla Russia. Ieri sono diventati operativi i tagli di produzione decisi dall’Opec e dalla Russia che hanno riportato il greggio sopra i 50 dollari al barile; nel 2016 il Brent è aumentato del 56 per cento e il Wti (petrolio del Texas) del 45; le stime 2017 vanno da una media di 57 dollari (con punte di 60 nel secondo semestre) della Barclays, a 60-70 dollari di Bank of America Merril Lynch. L’Italia è un’importatrice di energia, ma il costo sarebbe compensato dal beneficio della ripresa dell’export nei mercati orientali e dalla rivitalizzazione del fatturato dell’Eni e delle commesse di aziende impegnate della costruzione di oleodotti e gasdotti. Per inciso: in tutte queste previsioni trovano poco o nessuno spazio le ricette autarchiche a km zero dei grillini, dall’enogastronomia alle puntate strategiche sulle energie verdi. Per il governo Gentiloni la vera partita sarà però nel Consiglio europeo di giugno, che riaffronterà il capitolo delle sanzioni alla Russia, prorogate a dicembre di sei mesi. A quella scadenza si arriverà con l’Italia che dal primo gennaio ha assunto la presidenza del G7, e che il 26 e 27 maggio ospiterà a Taormina il summit dei capi di stato e di governo.

 

C’è un grande lavorìo per riportare al tavolo Vladimir Putin, escluso dal 2014. Con Federica Mogherini ormai risucchiata nella linea ufficiale della Ue, se ne sta occupando la diplomazia romana, dove è stata messa al bando ogni tipo di polemica sia contro la Russia (estrema freddezza sulla decisione di Barack Obama di espellere 35 presunte spie russe), sia contro la nuova amministrazione Trump. E qui entra in ballo un altro fattore che i vari esperti, non solo l’Istat, considerano essenziale per consolidare la ripresa, e cioè la stabilità politica. Non solo il balletto sulla legge elettorale, dunque, per votare nel 2018; ma anche gli interessi economici. Però questo quadro ha il suo lato oscuro. L’aumento dei tassi americani detterà la linea al resto del mondo, Europa compresa. Il rincaro del petrolio farà aumentare l’inflazione, probabilmente riportandola nell’euroaona vicino al 2 per cento che segnerà la fine del Quantitative easing della Bce. Mario Draghi ha stimato che l’inflazione media europea sarà dell’1,7 per cento nel 2018, “non ancora sufficiente per interrompere gli acquisti”, che dunque il presidente dell’Eurotower prevede fin verso il 2019, la scadenza del suo mandato. Ma molti cominciano a credere credono che l’inflazione rialzerà la testa molto prima, ed i benefici monetari finiranno in anticipo; soprattutto per il debito dell’Italia.

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