Dove nasce l'agonia di Mps e quella di ciascun contribuente

Renzo Rosati

Sarà un salvataggio “privato” o misto? Gli errori incrociati che hanno portato Siena a un passo dallo stato

Roma. “I tempi per una soluzione di mercato ci sono ancora, la soluzione della crisi di governo è rassicurante per gli investitori esteri”. Così Marco Morelli, amministratore delegato del Monte dei Paschi di Siena (Mps), ha ripetuto ieri quanto detto domenica 11 al cda dell’istituto più problematico d’Italia: la banca può mettere assieme i 5 miliardi per la ricapitalizzazione, senza ricorrere al salvataggio pubblico (bail-out) né infliggendo le perdite ad azionisti e creditori (bail-in, la regola europea in vigore dal 1° gennaio 2016). Le speranze di Morelli si basano su una serie di passaggi da slalom speciale su pista ripida e ghiacciata: conversione in azioni di un miliardo di obbligazioni subordinate in mano a investitori istituzionali, come le Assicurazioni Generali, la cui opzione è già stata annunciata; intervento per 1-1,5 miliardi di Qia, il fondo sovrano del Qatar, che aveva congelato l’investimento causa la vittoria del No al referendum e le dimissioni di Matteo Renzi; riapertura dei termini per convincere 40 mila obbligazionisti privati a convertire i bond in 2 miliardi di azioni. Operazione, questa, complicata e già fallita a novembre. La clientela retail non ha infatti il profilo richiesto per legge – il modello Mifid – per essere indotta all’assunzione di un rischio sul capitale, ancora più elevato di quello su un prestito. Occorre quindi il via libera della Consob, l’accettazione degli interessati a sottoscrivere una nuova profilatura Mifid, la conversione di tutti i bond. Un’inforcata di una porta, mentre il cronometro fila verso la scadenza del 31 dicembre fissata dalla Banca centrale europea, farebbe scattare il bail-in, o il bail-out. Anzi, un misto di entrambi, cioè il salvataggio privato ma con capitali pubblici visto che tra gli azionisti c’è anche il Tesoro, oggi titolare del 4 per cento di Mps.

 

E prolungherebbe non solo l’agonia della più antica banca del mondo, ma anche i guai del sistema bancario italiano dove i cantieri delle ricapitalizzazioni e delle fusioni sono tuttora aperti, da Unicredit alle popolari di Vicenza e Montebelluna. Un unicum italiano, soprattutto nel caso di Mps, che certo si deve anche alle regole e ai comportamenti europei; ma la cui colpa ricade principalmente sulle autorità politiche e di vigilanza italiane, in testa governi passati e Banca d’Italia. E nel quale la responsabilità minore appare del riconfermato titolare dell’Economia Pier Carlo Padoan, che pure è pronto al salvataggio pubblico: con l’idea di costituire un super-fondo da 14 miliardi, per Siena e non solo. A scopo deterrente, per carità. Ma pur sempre di denari pubblici si tratta. Rispetto ai quali plaude gran parte del fronte del No referendario: sinistra sindacale e del Pd, “conservatori” fittiani e Movimento 5 stelle, da sempre tifoso dell’ipotesi “nazionalizzazione”. Così tocca inopinatamente a Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e bersaglio usuale della propaganda antitedesca, ricordare che “proteggere le banche con i soldi dei contribuenti, anziché riformarle come si era iniziato a fare, oltre a violare le regole europee serve solo a perpetuare i peggiori comportamenti dei banchieri”. Naturalmente neppure l’Europa è esente da colpe, anzi. Tanto meno la Vigilanza della Bce, l’organo separato rispetto alla presidenza di Mario Draghi, affidata alla francese Danièle Nouy, già protagonista a fine 2015 di infauste “interpretazioni” che hanno complicato la liquidazione delle quattro banche del centro Italia (Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti, CariFerrara).

 

Dalla Grossmarkthalle di Francoforte, dove ci sono gli uffici della Nouy, è filtrata venerdì 9 dicembre la fuga di notizie che negava a Mps la proroga per la ricapitalizzazione fino al 20 gennaio, rifiuto non pervenuto a Siena e non confermato (ma neppure smentito) dalla Bce, che neanche fosse una procura italiana con le intercettazioni finite sui giornali, ha burocraticamente aperto un’inchiesta interna. E comunque il parere della Vigilanza dovrà passare al vaglio del Consiglio dei governatori della Bce, dove oltre a Weidmann è contrario anche l’austriaco Ewald Nowotny. Neppure la Commissione di Bruxelles fa mancare la propria opinione: il vicepresidente Valdis Dombrovskis fa appunto sapere di essere “in contatti costruttivi” con Roma. L’Europa come la conosciamo, insomma, che però non può sovrastare le responsabilità italiane. Il tandem Tremonti-Monti e i nostri guai Infatti se oggi lo stato è già azionista di Mps, e dunque, a meno che Morelli non riesca nel suo slalom, avremo un bail-in che però è anche un bail-out, cioè in cui ci rimette anche lo stato, ovvero tutti i contribuenti, lo si deve a due decisioni prese nel 2009 dal governo Berlusconi e nel 2012 da quello di Mario Monti, con l’assenso della Banca d’Italia.

 

Con la prima, mentre mezza Europa (potendolo fare) soccorreva i propri big bancari – la Commissione europea ha approvato 592 miliardi di euro di aiuti pubblici alle banche da ottobre 2008 a fine 2012 – l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti prestava al Mps 1,9 miliardi al tasso del 7,5 per cento. Con la seconda Monti erogava 4,92 miliardi al 9 per cento iniziale, a salire dello 0,5 ogni anno. Interessi salatissimi. Destra, sinistra e grillini impazzavano in piazza e nei talk show contro i governi “amici delle banche” alle quali davano soldi che poteva essere impiegati, a seconda dei fronti, “per togliere la tassa sulla prima casa”, “combattere la disoccupazione”, “per l’emergenza scuola”. Nessuna banca, in quelle condizioni, poteva ripagare interessi simili; men che meno Mps. Così nel 2014 parte dei 240 milioni di interessi sono stati convertiti in azioni del Tesoro. E, mentre Banca d’Italia insisteva a minimizzare la questione dei crediti deteriorati, protestava con Bruxelles – il che non guasta mai – e solo nel luglio 2015 il governatore Ignazio Visco riferiva in Parlamento che “bisogna informare i clienti che pagheranno anche loro per i salvataggi delle banche”, lo stato, cioè noi, diveniva il primo socio dell’istituto senese; e dei suoi (e nostri) guai. 

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