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Rapporto di Spencer Stuart

Così i “vincoli esterni” migliorano le prassi dei grandi di Piazza Affari

Alberto Brambilla

L’arrivo di investitori esteri e i diktat bancari spingono la riforma del pigro capitalismo italiano. Ma non basta. Lo spread rivede quota 190

Roma. Il declino economico può prendere diverse forme, dalla perdita di potenza industriale alla vulnerabilità verso le mattane di Lady Spread (ieri in stato d’eccitazione referendaria: torna a vedere i 190 punti base). Ma non sempre le conseguenze sono negative. Otto anni di crisi economico-finanziaria stanno stimolando un’accelerazione nel mutamento degli assetti di potere del capitalismo italiano e un conseguente miglioramento nelle pratiche gestionali delle principali società quotate, dopo anni di immobilismo opportunistico. L’edizione 2016 dell’Osservatorio sui cda delle prime cento società per capitalizzazione di Borsa elaborata con dati fino all’11 marzo di quest’anno da Spencer Stuart, società di consulenza specializzata nel reclutamento di figure apicali e servizi di board advisoring, restituisce l’immagine di un processo di avvicinamento alle best practice di gestione aziendale sospinto soprattutto da fattori e agenti esterni. Con l’apertura degli assetti di controllo, la crescita della partecipazione di investitori esteri è stata esponenziale negli ultimi quattro anni, complice il calo generalizzato dei titoli.

L’incremento del peso degli investitori internazionali nel capitale delle assemblee delle società quotate analizzate è passato da una media del 13 per cento nel 2012 al 21 per cento nel 2015, per arrivare al 70,2 per cento del 2016 – un record. Spencer Stuart vede nella “maggior presenza” di investitori esteri “un importante stimolo nel miglioramento del governo dell’impresa” e auspica una partecipazione incisiva degli istituzionali, come i fondi, nella vita societaria. L’ingresso nel capitale però non corrisponde a una speculare presenza di membri stranieri nei cda che in Italia è la più bassa d’Europa, al 9,4 per cento.

E’ relativamente bassa anche la percentuale di stranieri in ruoli manageriali apicali con carattere esecutivo, dall’amministratore delegato al direttore generale: sono in media il 3,9 per cento in Italia, il 22,4 nel Regno Unito, il 15 in Francia e il 5,1 in Spagna. Dopodiché è pur vero che da quest’anno sono manager francesi a guidare Generali e Unicredit – bastioni del capitalismo finanziario italiano.

Lo choc esterno più rilevante è derivato dalla trasformazione in società per azioni delle banche popolari – dove albergano fondi esteri, in alcuni casi appena sotto la soglia di disclosure del 2 per cento – decisa per decreto dell’esecutivo Renzi su spinta della Banca centrale europea. Le radicali modifiche alla normativa bancaria – come l’introduzione del bail-in per la risoluzione degli istituti periclitanti – porta la Vigilanza della Bce a monitorare da vicino il processo di riassetto dell’industria nazionale con moral suasion anche in fatto di composizione del cda sia in termini di competenze, onorabilità, esperienza e disponibilità temporali affinché gli amministratori siano adatti e preparati all’incarico. Un cambiamento a cui Spencer Stuart guarda con favore nel report “Italy Board Index 2016” che il Foglio ha potuto leggere in anticipo.

Se i vincoli esterni e i cambiamenti normativi incentivano migliori prassi gestionali – da notare a proposito l’aumento della presenza femminile nei cda, dal 22,3 al 26,4 per cento dopo le “quote rosa” volute dal governo Monti – sono più lenti i progressi quando le riforme sono interne. Solo undici società del Ftse Mib, il listino principale, hanno predisposto modifiche statutarie per permettere a un cda uscente di presentare all’assemblea degli azionisti le proprie liste in modo da garantire continuità nell’operato dell’azienda affinché il lavoro di passati amministratori non venga disfatto dai successivi – come accade in politica. Tra queste undici, Prysmian (public company), Yoox (digital company, il primo “unicorno” italiano), e Banco Popolare hanno presentato una loro lista.

Ci sono poi sindromi del capitalismo all’italiana difficili da debellare come la resistenza ad approntare piani di successione del capo azienda, soprattutto se la proprietà è nelle mani di una sola famiglia o del fondatore. Nonostante i casi di cronaca finanziaria indurrebbero a mettere mano alla questione in modo organico, 57 società su 100 monitorate da Spencer Stuart non hanno redatto o non hanno intenzione di redigere un piano di successione (delle 21 con piani di successione in essere, 14 sono quotate sul Ftse Mib). “E’ fondamentale preparare la successione – dice al Foglio l’amministratore delegato Italia di Spencer Stuart Luigi Paro – perché rimanere senza guida è la cosa più rischiosa. Bisogna insistere su questo cambiamento culturale”.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.