Una manifestazione contro il Jobs Act (foto LaPresse)

L'eredità nefasta dell'Articolo 18

Redazione

I dati Istat, la produttività mancata e il posto fisso. Altro che dàgli al Jobs Act. Intanto il governo approva sgravi per chi assume al sud 

Nella retorica del No che unisce Beppe Grillo, Renato Brunetta, Matteo Salvini e Susanna Camusso, il Jobs Act è la sintesi dell’antirenzismo in economia (in politica, la “dittatura dell’uomo solo al comando”). La riforma è un “flop act che aumenta i licenziamenti” per il capogruppo di Forza Italia; “la regolarizzazione della schiavitù” per Grillo; “una menzogna mediatica” secondo la Cgil; mentre Salvini la definisce “una legge scritta dalla Confindustria, per questo sto con la Camusso”. E poiché la crescita del pil è insoddisfacente – per l’Istat 0,8 nel 2016 e 0,9 nel 2017, secondo gli ultimi dati comunicati lunedì – ecco che l’intero fronte vi trova la prova provata da esibire nei talk show. Sul Corriere della Sera gli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi smontano però la retorica anti Jobs Act dimostrando che la bassa crescita si deve al ventennale gap di produttività che riguarda chi già lavora.

 

Le modeste performance (8 volte meno degli Stati Uniti, 6 volte di Francia, Gran Bretagna e Germania) si devono al nanismo e alla proprietà familiare delle nostre imprese, l’85 per cento. Anche in Germania il 90 per cento delle aziende è in mano a famiglie, ma la gestione è affidata quasi sempre a professionisti: il contrario che in Italia. “Così le imprese meno produttive non hanno lasciato spazio a quelle produttive. Uno dei risultati di politiche che fino al Jobs Act hanno difeso il posto di lavoro invece dei lavoratori”. A frenare la crescita è stato (anche) l’effetto di lungo termine di una malintesa cultura del posto fisso a qualunque costo: ecco i bei tempi andati che vorrebbero riportare in auge grillini e Lega, contro i “poteri forti”. Altro che Jobs Act. 

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