C'è anche un groviglio istituzionale a frenare il vero rilancio del sud

Guido Pescosolido
Nel 2015 l’economia meridionale è tornata a crescere e, cosa ancor più significativa, a crescere più di quella settentrionale. Il rapporto Svimez e l'occasione da non perdere del referendum costituzionale del 4 dicembre.

Il Rapporto Svimez 2016 sull’economia del Mezzogiorno è stato presentato a Roma nella Sala del Tempio di Adriano della Camera di Commercio. Mole del volume (circa 900 pagine) e programma dei lavori ricalcano abbastanza fedelmente i rapporti degli anni precedenti: corposa relazione introduttiva del Presidente della Svimez Adriano Giannola; interventi di vari esponenti del mondo imprenditoriale, parlamentare, governativo e delle amministrazioni regionali meridionali; conclusioni di Claudio De Vincenti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Alquanto diverso invece da quello degli anni precedenti è il contenuto del rapporto di quest’anno. Nel 2015 l’economia meridionale è tornata a crescere e, cosa ancor più significativa, a crescere più di quella settentrionale, per cui per la prima volta dopo qualche decennio il divario tra Nord e Sud nel pil pro-capite torna, sia pur leggermente, a diminuire. Nel 2015 infatti il pil è aumentato nel Mezzogiorno dell’1 per cento, contro lo 0,7 del resto d’Italia e contro il -1,2 del 2014 che portò a -12,3 per cento la caduta di reddito accumulata ininterrottamente dal Mezzogiorno dal 2007 in poi. Anche più accentuata è stata la crescita del pil pro capite (più 1,1 per cento nel sud, più 0,6 per cento nel resto del paese) e a essa hanno concorso tutte le regioni. E assieme al reddito sono cresciuti gli investimenti, l’occupazione, i consumi. I primi dello 0,8 per cento dopo ben sette anni di variazioni negative, e l’incremento è stato in linea con quello del Centro-Nord (0,8 per cento). Gli occupati sono aumentati dell’1,6 per cento, mentre nel Centro-Nord sono cresciuti dello 0,6.

 

Non bisogna certo lasciarsi andare a facili ottimismi, perché nel 2015 ancora 10 meridionali su 100 risultano in condizioni di povertà assoluta, contro poco più di 6 nel Centro-Nord, e il rischio di cadere in povertà è triplo al Sud rispetto al resto del paese. Ma va pur detto che si tratta di una ripresa da non sottovalutare perché, pur con fragilità e aleatorietà che portano a prospettive di inferiore performance per il 2016, essa rappresenta il segnale positivo di più forte intensità lanciato dal Mezzogiorno dalla metà degli anni Novanta in poi. E proprio per questo bisognerebbe cercare di consolidarla e darle continuità, avendo presenti i suoi punti di fragilità (incidenza dei fattori climatici in agricoltura, bellici sull’andamento del turismo, conclusione del programma europeo di fondi strutturali 2007-13), non dimenticando le dimensioni e la durata e le ragioni del rallentamento di sviluppo e della recessione nella quale il Mezzogiorno è rimasto avviluppato a partire dagli anni 90. Sono entrati infatti sicuramente in gioco fattori strutturali e istituzionali, e non solo congiunturali, se dopo la chiusura dell’Agensud abbiamo assistito nel Mezzogiorno a un crollo degli investimenti pauroso e inarrestabile, seguito da una spirale di stagnazione e recessione di  produzione, redditi e consumi che è continuata sino al 2014 e che ha visto il divario in termini di pil pro capite tornare sui livelli dell’inizio degli anni 50, quando ne era iniziata quella significativa riduzione arrestatasi per la prima volta nel 1973-’74. Non che il Mezzogiorno sia stato dopo sempre in decrescita, ma nei periodi di recessione (1993-99 e 2008-14) la sua caduta è stata sempre superiore a quella del resto d’Italia e d’Europa, mentre nei periodi di ripresa (2000-2007) la sua crescita è stata sempre inferiore. Ne derivò una divaricazione continua della forbice Nord-Sud abbastanza analoga a quella registrata nel contempo dall’Italia rispetto al resto dell’Ue e dell’Eurozona.

 

Non è certo possibile sviluppare qui un’analisi completa delle ragioni e delle responsabilità della mancata soluzione della questione meridionale. Una cosa tuttavia si può dire: se è vero che dall’istituzione delle regioni in poi il divario Nord-Sud ha smesso di decrescere e dall’introduzione del cosiddetto federalismo è tornato ad allargarsi, qualcosa nel rapporto tra stato e ente regione nel Mezzogiorno non ha funzionato. Se è poi vero che l’andamento economico del 2015 suggerisce che la lunga crisi non ha fatto venir meno la capacità delle regioni meridionali di rimanere agganciate allo sviluppo del resto del paese, allora sarà bene cercare di non perdere l’occasione di semplificazione del rapporto stato-regioni contenuto nella riforma costituzionale sottoposta a referendum il 4 dicembre. Né l’Italia, né soprattutto il Mezzogiorno se lo possono permettere.

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