La sede della Banca d'Italia (foto LaPresse)

Processo alle banche

Salvatore Rossi
Le dimensioni degli istituti, la bassa redditività, la produttività non soddisfacente e tutti i tabù da superare spiegati, con un j’accuse, dal direttore generale di Bankitalia. La bassa redditività è un problema acuto in Italia e riflette l’elevato livello dei crediti deteriorati, lascito della recessione.

Pubblichiamo l’intervento pronunciato dal direttore generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi durante la Giornata del Credito-Dimensione e organizzazione delle banche nel nuovo contesto regolamentare e tecnologico

 


 

La crisi finanziaria globale ha radicalmente mutato il contesto nel quale operano le banche di tutto il mondo; fare banca oggi è assai più difficile di quanto non lo fosse prima della crisi. Due fattori stanno guidando il cambiamento: la riforma delle regole di gioco della finanza, che ormai da tempo vengono quasi tutte stabilite a livello sovranazionale; il formidabile sviluppo della tecnologia, anch’esso su scala globale. I leader del G20, immediatamente dopo lo scoppio della crisi, fissarono un obiettivo: i sistemi bancari dovevano avere “più capitale, di migliore qualità, e meno debito”. Il mondo si è incamminato verso quell’obiettivo, anche se con entusiasmo decrescente.

 

Per fare banca oggi occorre, coeteris paribus, più capitale di un decennio fa e di una qualità tale da meglio assorbire le perdite che possono emergere durante la normale vita della banca. Questa non può più espandere la dimensione del proprio bilancio ricorrendo liberamente all’indebitamento, data l’introduzione di un limite al grado di leva finanziaria. Sul capitale e sulla liquidità, alle prescrizioni globali emesse dal Comitato di Basilea e dal Financial Stability Board si sono aggiunte in Europa quelle comunitarie, culminate nella complessa ma incompleta architettura dell’Unione bancaria. Il secondo fattore di cambiamento, quello tecnologico, ha radici lontane, che precedono lo scoppio della crisi finanziaria globale. Ma è indubbio che proprio negli anni della crisi quei progressi, sulla spinta della diffusione esponenziale di internet, dell’incessante processo di digitalizzazione, del ricorso via via crescente alla moneta e agli strumenti di pagamento elettronici, abbiano registrato una formidabile accelerazione. 

 

Nel caso dei servizi di pagamento – è l’esempio più evidente – fare banca oggi significa soddisfare la domanda dei clienti ovunque si trovino (nelle loro abitazioni, in treno, al bar, per strada), ovvero nei loro personal computer, nei loro tablet, nei loro telefoni. Tra il 2003 e il 2015 la quota dei bonifici disposti per mezzo di canali telematici (per telefono o via internet) è più che raddoppiata, dal 20 al 42 per cento. Viene così eliminato il limite all’offerta di questi servizi posto dalla distanza fisica tra la banca e il cliente: un modo completamente nuovo di competere. (…)

 

L’impatto dello sviluppo tecnologico sul mercato dei prestiti è per il momento meno forte. Anche se esistono già oggi numerosi portali specializzati nell’individuare direttamente da casa i finanziamenti più adatti alle esigenze del cliente alle condizioni più vantaggiose, la stipula del prestito avviene ancora in quasi tutti i casi allo sportello. Tuttavia è solo questione di tempo: i progressi inesorabili nell’identità digitale e nella firma elettronica consentiranno ben presto di informatizzare interamente l’erogazione di un prestito, almeno se standardizzato. La concorrenza portata alle banche propriamente dette da aziende di altro tipo, non regolamentate, rischia di diventare irresistibile. Come deve reagire l’industria bancaria La reazione che ci si aspetta dall’industria bancaria, quindi anche dagli intermediari italiani, può essere riassunta da una metafora sanitaria: fare esercizio fisico e perdere peso al fine di recuperare agilità. Tradotta in linguaggio bancario, questa reazione si articola in diverse azioni. Accrescere, innanzitutto, la capacità di resistere a shock esterni, a turbolenze sui  mercati finanziari, in modo da continuare a sostenere l’economia anche in fasi avverse.

 

Ma anche dismettere le attività che non sono strettamente funzionali al mestiere della banca, così da concentrarsi sul core business; accrescere i livelli di efficienza e di produttività; utilizzare i risparmi di costo per aumentare gli investimenti, sia in tecnologia sia in formazione delle risorse. Si tratta, in altri termini, di cambiare il modello di attività. Non bisogna generalizzare, non tutte le banche devono porre in essere tutte le misure, o adottarle tutte insieme. La cura va tarata in base alla situazione. Per le banche che la crisi ha reso molto deboli, lo spettro di azione dovrà però essere ampio e incisivo. E’ una prescrizione valida per tutta Europa, ma in particolare lo è per l’Italia. Una buona governance è il prerequisito Un buon governo societario, che promuova efficaci sistemi di controllo dei rischi, assicuri efficienza nel processo di allocazione del credito, gestisca attentamente i conflitti di interesse, è condizione necessaria per intraprendere le misure che ho appena menzionato.

 

Soprattutto, rende possibile un rapido accesso al mercato dei capitali nel momento in cui vi sia bisogno di reperire risorse fresche. In Italia negli scorsi anni sono stati adottati importanti provvedimenti di riforma della governance delle banche, in particolare di quelle cooperative. Con la trasformazione delle grandi popolari in società per azioni vengono meno le disfunzioni spesso associate all’eccessiva autoreferenzialità del management, conseguenza dell’uso distorto del voto capitario. La riforma delle Banche di Credito Cooperativo va pure nella direzione di consentire ove occorra il tempestivo ricorso al mercato dei capitali. Fa parte di questo complessivo processo di rafforzamento degli assetti di governo societario delle banche anche il protocollo d’intesa tra il Governo e l’ACRI sui rapporti tra Fondazioni e banche partecipate. 

 

Della necessità di queste misure, anche alla luce dei cambiamenti istituzionali che hanno fatto seguito al lancio dell’Unione bancaria europea, si è discusso a lungo. L’esperienza di questi ultimi anni, per molti versi dolorosa, non ha fatto altro che confermare l’ineluttabilità del processo di riforma. Che cosa succede ora? Il problema dei problemi delle nostre banche è la bassa redditività. Le banche italiane lo condividono con gran parte degli intermediari europei, per via delle deboli prospettive di crescita economica, dell’incremento della concorrenza, dell’eccezionale, ancorché temporanea, discesa dei tassi d’interesse. In Italia, tuttavia, il problema è particolarmente acuto e riflette anche l’elevato livello dei crediti deteriorati, lascito della lunga e profonda fase recessiva. Sebbene il deterioramento della qualità dei prestiti abbia mostrato di recente un rallentamento e siano state avviate prime operazioni di cessione delle “sofferenze”, lo smaltimento dello stock di crediti deteriorati richiederà inevitabilmente tempo.

 

Occorre accelerare la razionalizzazione delle strutture organizzative centrali e della rete delle dipendenze sul territorio, in modo da riassorbire l’eccesso di capacità produttiva che si è determinato in questi lunghi anni di crisi. In non pochi casi saranno inevitabili interventi sul personale: si potranno utilizzare gli ammortizzatori sociali esistenti, ovvero il pensionamento anticipato finanziato dal fondo di solidarietà di settore, per il quale è stata recentemente ampliata la possibilità di utilizzo; ma, se necessario, occorreranno interventi ad hoc. Aiuteranno il recupero di redditività delle aggregazioni, da facilitare, soprattutto fra banche di media dimensione dove le possibilità di sfruttare sinergie di costo e diversificare le fonti di ricavo appaiono più elevate.

 

L’ammodernamento delle banche italiane non può essere valutato isolatamente dal resto dell’economia. Occorre tenere conto anche della struttura produttiva. Questa è, come è ben noto, estremamente frammentata. Secondo i dati dell’Eurostat relativi al settore privato non finanziario l’Italia, con 3 milioni e 800 mila imprese, supera di oltre mezzo milione di unità la Francia, di 1 milione e 500 mila la Germania. Secondo l’Istat – che arriva a contare in Italia 4 milioni e 300 mila imprese – il valore aggiunto complessivo proviene per circa il 30 per cento da microimprese e lavoratori autonomi, per un altro 30 da grandi imprese e per il restante 40 da aziende di media dimensione. In Germania e in Francia è assai minore il numero e la rilevanza economica delle piccole imprese e dei lavoratori autonomi e maggiore la quota di valore aggiunto prodotta dalle imprese più grandi. La predominanza di imprese molto piccole, che pure in passato sono state un importante elemento di flessibilità produttiva, limita oggi la capacità di innovazione, di internazionalizzazione, di adozione di pratiche manageriali moderne.

 


Il valore delle azioni bancarie sul listino della Borsa italiana. Prezzo al 28 ottobre 2015: 16.947,5500. Prezzo al 5 ottobre 2016: 7.523,8300


 

La quota di imprese che svolgono continuativamente all’interno attività di ricerca e sviluppo è inferiore al 20 per cento tra le piccole, sale al 50 per cento tra le grandi. Secondo i dati raccolti dall’Indagine Invind della Banca d’Italia la percentuale di imprese che dichiara di aver adottato tecnologie connesse con l’intelligenza artificiale, i big data o l’internet of things, è del 10 per cento tra le piccole, quasi del 30 tra le grandi. Nel confronto con gli altri principali paesi europei l’Italia spicca per la percentuale molto elevata di imprese in cui tutto il management – e non solo l’amministratore delegato come accade altrove – appartiene alla famiglia proprietaria: in queste imprese prevalgono metodi gestionali tradizionali che non incentivano l’innovazione tecnologica e organizzativazione e soprattutto all’internazionalizzazione produttiva cresca significativamente con la dimensione di impresa.

 

Di tutto questo risente la produttività aggregata dell’economia, misurata dal valore aggiunto per addetto: prima di tutto per un mero effetto di composizione, visto che, per ovvie ragioni tecnologiche e organizzative connesse con la possibilità di sfruttare economie di scala e di scopo, è naturale che l’efficienza produttiva aumenti con la dimensione aziendale. In Italia la produttività delle microimprese è, in termini nominali, pari a poco più di un terzo di quella delle grandi. A frenare ulteriormente la produttività concorre un altro aspetto assolutamente degno di nota: le nostre numerosissime piccole imprese sono mediamente molto meno efficienti delle analoghe aziende europee, mentre ciò non accade per le imprese medio-grandi. Un problema specifico concerne le start-up, che in molti paesi avanzati sono il motore fondamentale della crescita. Le imprese che nascono nel nostro paese non sono solo mediamente più piccole che altrove – la media è leggermente inferiore a 5 dipendenti nella manifattura e a 3 nei servizi, contro valori doppi in Francia e nel Regno Unito – ma faticano ad espandersi.

 

Quando hanno successo crescono a tassi molto bassi e per un periodo limitato, in media inferiore ai due anni. Negli Stati Uniti continuano invece a crescere in media per dieci anni, raggiungendo così dimensioni che le mettono presto in grado di competere alla pari con le imprese mature più grandi. Questa fotografia del sistema produttivo italiano è fonte di grande preoccupazione. Può rivelarsi una leva per innalzare il potenziale di crescita della nostra economia, ma allora occorre abbandonare la prospettiva statica e ragionare in chiave dinamica, comprendere che cosa freni la crescita dimensionale delle imprese e cercare di rimuovere gli ostacoli. E’ un dibattito fatto mille volte. La conclusione oscilla fra l’addossare la responsabilità principalmente agli imprenditori e al loro ritardo culturale e il darla invece ai vincoli esterni, "al sistema" come si usava dire un tempo: il fisco, la burocrazia, l’istruzione, le banche, e così via. Ognuno di noi ha il suo colpevole preferito, ma nessuno può negare che tutti questi fattori siano compresenti. Bisognerà agire su tutti se si vorrà salvare la nostra economia da un destino di progressiva perdita di rilevanza nel mondo delle produzioni.

 

Struttura produttiva e struttura finanziaria La struttura produttiva e quella finanziaria sono in Italia adeguate l’una all’altra? Si, ma per la ragione sbagliata. Entrambe sono troppo sbilanciate a favore del credito bancario. La finanza delle imprese fa troppo conto sul debito, e troppo di questo è bancario. Il rovescio della medaglia è che la struttura finanziaria italiana è dominata dalle banche, che sono comunque frammentate anch’esse. Poche evidenze servono per mostrarlo. In tutte le categorie dimensionali le imprese italiane sono più indebitate che nella media dell’area dell’euro, in misura crescente dalle grandi alle piccole e piccolissime. Nella composizione dei debiti finanziari delle nostre imprese si nota l’assoluta anomalia italiana, con i prestiti bancari di gran lunga prevalenti, più che in qualunque paese o area del mondo avanzato. Il capitale di rischio latita da noi.

 

Ma per espandersi, per conquistare nuovi mercati, per innovare, le imprese hanno bisogno di capitale di rischio, che è lo strumento principe per finanziare investimenti dal rendimento elevato ma incerto. Esso consente di ridurre i problemi di azzardo morale intrinseci nei contratti di debito, allineando gli interessi dei soggetti finanziati e dei finanziatori e permettendo a questi ultimi di beneficiare degli alti rendimenti dell’investimento in caso di successo. Il riequilibrio della composizione delle passività finanziarie delle imprese può trarre vantaggio dagli incentivi pubblici, come la deduzione dal reddito imponibile del rendimento figurativo dei nuovi apporti di capitale (ACE): essa riduce la distorsione nel prezzo relativo del capitale proprio e del capitale di debito creata dalla deducibilità degli interessi sul debito. Evidenze empiriche preliminari indicano che l’ACE ha permesso a numerose imprese manifatturiere di ridurre la propria leva finanziare in maniera permanente. Il calo è stato maggiore tra le imprese più giovani e per le piccole e medie imprese.

 

Altri provvedimenti pubblici, meno di successo, hanno cercato di favorire la quotazione in borsa per mezzo di segmenti di mercato dedicati alle piccole e medie imprese e della riduzione degli oneri amministrativi. La strada da percorrere è ancora molta. Secondo i dati diffusi dall’AIFI nel 2015 gli investimenti da parte degli intermediari tipicamente votati ad offrire capitale di rischio (cioè le società di venture capital e di private equity) sono stati pari ad appena 4,6 miliardi. Il numero di società non finanziarie quotate, seppure in crescita, rimane piccolo (256, contro le oltre 700 di Francia e Germania) e il loro valore di mercato molto basso in rapporto al pil (20 per cento, a fronte del 47 e 69 per cento di Francia e Germania, rispettivamente). Alla base di questi ritardi vi è, sì, la scarsa rilevanza nel nostro paese degli investitori istituzionali, ma anche, e forse soprattutto, la volontà delle imprese. In una visione miope, i vantaggi di lungo periodo di una più solida patrimonializzazione sono stati messi a fronte dei costi immediati dell’apertura a nuovi soci e di una maggiore trasparenza di bilancio, finendo con l’essere sovrastati.

 

Almeno per le imprese di più grande dimensione c’è un ovvio strumento di finanziamento esterno diverso dal prestito di una banca: emettere obbligazioni. Dallo scoppio della crisi finanziaria, in effetti, la quota di debito delle grandi imprese italiane rappresentata da obbligazioni è salita. Da questo punto di vista l’Italia non si discosta eccessivamente dagli altri paesi dell’area dell’euro. Il discorso è radicalmente diverso per quanto riguarda le imprese di media dimensione: per esse il debito obbligazionario resta del tutto marginale. Potrebbero esserci margini di miglioramento, anche in questo caso legati a politiche pubbliche. Studi recenti condotti in Banca d’Italia indicano che vi sarebbero numerose imprese che non ricorrono al debito obbligazionario ma che hanno caratteristiche simili ad altre che hanno fatto invece emissioni negli anni passati .

 

Tra il 2012 e il 2014, immediatamente dopo l’introduzione delle misure pubbliche che hanno reso più conveniente l’emissione di obbligazioni da parte delle società non quotate, il ricorso al mercato da parte delle medie imprese è aumentato. In seguito, tuttavia, il numero e l’ammontare delle operazioni hanno smesso di crescere. Ha giocato, da un lato, la stessa bassa propensione alla trasparenza nei confronti degli investitori che limita le nuove quotazioni; dall’altro, la scarsa ampiezza dei mercati. Quest’ultima condizione potrebbe essere migliorata dall’Unione del mercato dei capitali progettata in Europa. Per le imprese di piccola e piccolissima dimensione il problema di trovare un’alternativa al credito bancario è ancora più intricato. Per molte di loro la piccola dimensione si associa con una più elevata rischiosità.

 

(…) Alla frammentazione delle nostre imprese, fenomeno antico, la crisi di questi anni ha aggiunto in Italia una notevole polarizzazione del sistema produttivo, anche se questa in parte riflette la scala dimensionale. A un estremo vi è un gruppo di buone, in qualche caso eccellenti, imprese, molto profittevoli, collocate sulla frontiera tecnologica mondiale, fortemente esportatrici se sono manifatturiere. Hanno dimensione varia, anche piccola, ma sono prevalentemente medio-grandi. Anche quelle più grandi hanno comunque una dimensione aziendale piccola nel confronto internazionale. All’altro estremo troviamo aziende che la crisi ha messo in seria difficoltà; molte sono fallite, molte lo sono quasi. Anche in questo caso la loro dimensione è varia, ma la piccola o piccolissima scala prevale; quindi le aziende in questa categoria sono tante, anche se producono una quota men che proporzionale di valore aggiunto. In mezzo c’è una zona grigia.

 

La dimensione prevalente è quella media. Sono a volte aziende in difficoltà ma non prossime al fallimento, con un potenziale almeno in parte inespresso. In altri casi sono aziende di successo, anche su scala internazionale, ma che mancano della capacità manageriale e delle risorse finanziarie per fare un salto di qualità significativo: cambiare assetti tecnologici, adottare le migliori pratiche manageriali, ampliare la gamma dei propri prodotti, allargare lo spettro di azione verso i mercati mondiali più dinamici. Le imprese al primo estremo cominciano a voler fare a meno delle banche, o almeno fanno valere la propria buona reputazione e, anche quando vogliono seguitare a servirsi delle banche, fanno agire pienamente la concorrenza servendosi della pratica ultradecennale del multiaffidamento. Le banche spesso le inseguono. Le imprese all’altro estremo si vedono oggi rifiutare il credito. Giustamente, aggiungo, anche se con preoccupazione.

 

Quando le vacche erano grasse e i legami localistici o politici delle banche con la clientela erano più forti e più opachi, era più facile occultare la cattiva gestione di alcuni intermediari nel selezionare i debitori; ora è sempre più difficile. Il punto dolente sono le imprese della categoria intermedia, la zona grigia. Sono capaci le banche di intravedere il potenziale inespresso di molte di queste imprese, andando al di là delle loro temporanee difficoltà? Sono capaci, una volta che lo abbiano individuato, di aiutare le imprese a esprimerlo, questo potenziale? E anche se ne sono capaci, le nuove regole e i nuovi supervisori a cui le banche sono assoggettate consentono questo mestiere di investigazione e di supporto o si affidano esclusivamente e meccanicamente ai rating, esterni o interni? Ogni perplessità è lecita. Ma se ne viene affacciata una, tocca innanzitutto alle banche fugarla, con opportune misure organizzative e di governo.     

 

Salvatore Rossi è Direttore Generale della Banca d’Italia e Presidente dell’IVASS   

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