Il trilemma degli economisti che mette in crisi globalizzazione ed Eurozona

Marco Valerio Lo Prete
La teoria economica dice che un paese non può avere a disposizione più di due elementi fra tre che pure tutti ritengono teoricamente desiderabili: il primo è il tasso di cambio fisso, il secondo è un’autonomia nazionale della politica macroeconomica e in particolare di quella monetaria, il terzo è la mobilità internazionale dei capitali. Come hanno reagito i diversi paesi?

    Oggi, come ogni lunedì, è andata in onda "Oikonomia", la mia rubrica settimanale su Radio Radicale. Qui potete ascoltare l'audio (dura meno di 5 minuti!) e qui di seguito il testo con alcuni link.

     

    La scorsa settimana ho parlato in questa rubrica del trilemma ideato da Dani Rodrik. Secondo l’economista americano di origini turche, “ogni riforma del sistema economico internazionale si scontra con questo trilemma. Se vogliamo far progredire la globalizzazione dobbiamo rinunciare o allo Stato-nazione o alla democrazia politica – scrive Rodrik – Se vogliamo difendere ed estendere la democrazia, dovremo scegliere fra lo Stato-nazione e l’integrazione economica internazionale. E se vogliamo conservare lo Stato-nazione e l’autodeterminazione dovremo scegliere fra potenziare la democrazia e potenziare la globalizzazione. Far finta che possiamo avere tutte e tre le cose allo stesso tempo ci lascia sospesi in una terra di nessuno piuttosto instabile”. Concludendo, avevo notato che il trilemma di Rodrik è la versione più “politica” di un altro trilemma che a lungo ha fatto discutere gli economisti. Di questo trilemma parlerò oggi.

     

    La teoria infatti dice che un paese non può avere a disposizione più di due elementi fra tre che pure tutti ritengono teoricamente desiderabili: il primo è il tasso di cambio fisso, il secondo è un’autonomia nazionale della politica macroeconomica e in particolare di quella monetaria, il terzo è la mobilità internazionale dei capitali. Perché si tratta di obiettivi desiderabili? Come ha sintetizzato Robert Gilpin, studioso delle relazioni internazionali all’Università di Princeton, “un paese può desiderare un tasso di cambio stabile al fine di ridurre l’incertezza e stabilizzare l’economia; oppure potrebbe desiderare una politica monetaria discrezionale per evitare un alto tasso di disoccupazione e per guidare l’economia tra recessione e inflazione; oppure ancora potrebbe desiderare la libertà di movimento dei capitali per facilitare la condotta degli scambi, l’investimento estero e altre attività economiche internazionali. Purtroppo, un governo non può raggiungere tutti e tre questi obiettivi simultaneamente, ne può ottenere al massimo due. Per esempio, scegliere un tasso di cambio fisso e stabile insieme con una certa libertà per politiche monetarie indipendenti significherebbe rinunciare alla libertà di movimento dei capitali, perché il flusso internazionale di capitali potrebbe minare sia la stabilità del cambio sia le politiche monetarie indipendenti. D’altra parte, un paese potrebbe scegliere di perseguire politiche macroeconomiche per promuovere il pieno impiego, ma poi dovrebbe sacrificare sia il tasso di cambio fisso sia la libertà di movimento dei capitali”. Ecco quello che gli economisti chiamano trilemma o irreconciliabile trinità.

     

    Un primo tentativo di risolvere il trilemma fu la creazione, negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, del “gold standard” classico sotto la guida della Gran Bretagna. “Con il sistema delle ‘gabbie d’oro’ (per citare il titolo dell’importante libro di Barry Eichengreen) si ottenne infatti stabilità monetaria internazionale; tuttavia, i governi esercitavano scarso controllo sull’economia, e le economie nazionali spesso si trovavano in serie difficoltà”. Crollato il sistema aureo e scoppiata la Prima Guerra mondiale, i governi riconquistano la libertà di condurre la loro politica economica a scapito dei tassi fissi e della crescente globalizzazione (che comunque era ancora tutt'altro che finanziaria); forse troppa libertà, visto che gli anni 30 e 40 del secolo scorso furono “un’era di marcata anarchia economica, svalutazione competitiva e politiche di beggar-thy-neighbour che perdurarono fino alla creazione del sistema di Bretton Woods, alla fine del Secondo conflitto mondiale”.

     

    Fino alla metà degli anni 70, il sistema di Bretton Woods garantì al mondo un regime di tassi di cambio fissi e stabile, con qualche margine per politiche monetarie indipendenti ma fondamentalmente incompatibile con la libertà di movimento dei capitali (che rimanevano meno numerosi di quanto non lo siano oggi). Da allora siamo entrati in quello che molti chiamano “un non-sistema”. Paesi o gruppi di paesi si sono orientati ad affrontare il maniera diversa lievemente diversa il trilemma. Gli Stati Uniti, per esempio, hanno prediletto politiche monetarie indipendenti e libertà nei movimenti di capitale a scapito dei cambi fissi. I membri dell’Unione europea hanno preferito cambi relativamente fissi, hanno rinunciato a una politica monetaria indipendente e tutelato dunque la mobilità internazionale dei capitali. Alcuni paesi asiatici, come la Cina, hanno attribuito un valore fondamentale all’indipendenza delle politiche macroeconomiche e dunque hanno imposto controlli sui movimenti di capitali.

     

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