Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)

L'Italia secondo Alleva

Jobs Act, imprese e banda larga. I consigli sviluppisti dell'Istat

Alberto Brambilla
Il Rapporto 2016 indica i punti luminosi della riforma renziana del lavoro e smorza le boutade sindacali. Staffetta generazionale addio.

Roma. Il Rapporto annuale 2016 dell’Istat restituisce in numeri l’idea che la riforma del lavoro dell’anno scorso, il Jobs Act, che il governo Renzi ora intende rilanciare, non perisce con la fine degli incentivi, come suggerisce lo stop delle assunzioni nel primo trimestre. Il Jobs Act ha avuto un effetto radicale sulla volontà di assumere delle piccole imprese, la grande maggioranza del sistema produttivo. L’Istituto presieduto da Giorgio Alleva ha voluto isolare – sulla base di autodichiarazioni delle aziende, statistiche supplementari e calcoli probabilistici – l’impatto sulla propensione delle imprese manifatturiere ad assumere con contratti a tutele crescenti, ovvero il perno del Jobs Act introdotto da marzo 2015, dall’effetto “incentivo” degli sgravi contributivi elargiti.

 

L’effetto si coglie, in particolare, sulle piccole imprese. La riforma normativa, dice l’Istat, ha attivato una domanda di lavoro aggiuntiva tra le aziende sotto i 50 addetti, che altrimenti, con una probabilità del 56 per cento, non avrebbero aggiunto occupazione dato che nel 2014 non assumevano. Per le piccole imprese il Jobs Act è stato lo “strumento più frequentemente scelto” per agganciare la ripresa della domanda di lavoro, dopo la stasi. E’ poi più probabile che si parli di nuovi contratti anziché di conversioni di contratti a termine, senza che gli sgravi abbiano funzionato da “fattore discriminante” per i contratti a tempo indeterminato, dice Istat. Invece per le imprese medie (50-249 addetti) e grandi (almeno 250) – per cui vale il superamento dell’art. 18 –, che avevano già aumentato gli addetti nel 2014, il contratto a tutele crescenti ha rafforzato una tendenza in atto con la decontribuzione a fare da “potente” incentivo, soprattutto per le grandi.

 


 

 


 

Il Jobs Act ha funzionato meglio ai fini di incoraggiare il recupero dell’occupazione rispetto a teorie false, come la “staffetta generazionale”. Commentatori e sindacalisti da tempo propagandano la teoria secondo cui il numero di posti è fisso e per dare occupazione a un giovane bisogna mandare in pensione un anziano. Nel rapporto 2016, Istat dice invece che “il confronto tra il profilo degli entrati e quello degli usciti riflette i cambiamenti della domanda di lavoro e in particolare il mutamento interno al settore terziario, che insieme hanno comportato cambiamenti strutturali poco conciliabili con l’idea di una staffetta generazionale ‘posto per posto’”. Le uscite per pensionamento sono più frequenti nei comparti della Pubblica amministrazione e dell’istruzione, dove il turn-over però è ibernato, mentre i giovani al primo lavoro trovano più spesso un’occupazione nel terziario (commercio, alberghi e ristoranti, servizi alle imprese) senza alcuna staffetta. “I giovani al primo lavoro – dice Istat – svolgono prevalentemente una professione di media qualifica nelle attività del commercio e dei servizi; il 30,8 per cento rispetto al 13,6 per cento degli usciti”.

 



 

I giovani avrebbero forse più convenienza a rivolgersi ai loro coetanei piuttosto che confidare nella “staffetta” con le generazioni genitrici. Istat segnala appunto che, sebbene in un sistema dove il tasso di mortalità delle aziende tra il 2008 e il 2013 è salito di un punto – unico caso nell’Unione europea – mentre la natalità resta contenuta, sono le microimprese guidate da giovani a “brillare”. La “performance occupazionale” delle aziende con meno di dieci addetti, ovvero il 95 per cento del sistema produttivo, guidate da persone fino ai 49 anni è stata migliore rispetto a quella di società gestite da anziani, a prescindere dal livello di tecnologia e dall’età dell’azienda, che può essere sia “nuova” sia “ereditata”. I vantaggi occupazionali legati alla giovane età degli imprenditori, dice l’Istat, sono massimi nelle imprese giovani in settori manifatturieri ad alta tecnologia (farmaceutica, elettronica, ecc.) e studi professionali (legali, architetti) di antica creazione.

 


 

 


 

A proposito di nuove tecnologie, l’Istat, che con la presidenza Alleva risponde anche a input istituzionali, generando simulazioni a breve termine in fase di formazione dei provvedimenti, spezza una lancia a favore della banda larga su cui il governo Renzi insiste. In Italia, penultimo paese europeo per connettività, la copertura totale nelle aree in cui l’infrastruttura è inesistente o scarsa, e dove operano circa 250 mila imprese, comporterebbe un aumento della produttività di 3.700 euro per addetto nell’industria, 4.000 nelle costruzioni e di 8 mila nei servizi diversi dal commercio.

 


 

 

 

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.