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Les capitalistes sommes-nous

Indagine sui pregi e i difetti della calata delle società francesi in Italia

Stefano Cingolani
Trasporti, moda, cibo, finanza, energia e Tlc. Come vanno le aziende tricolore sotto la regia dei francesi.

L’ultimo colpo lo ha messo a segno la Rapt, la società che gestisce il metrò di Parigi: ha vinto la gara indetta dalla Toscana per gestire i trasporti regionali, un affare da 4 miliardi sottratto a Mobit il consorzio delle piccole aziende locali. E se fosse un bene? Se i razziatori francesi, che fanno man bassa delle aziende italiane, fossero riusciti come per incanto ad aumentare i posti di lavoro, il giro d’affari, gli utili, la taglia e la dimensione internazionale? Intendiamoci, Vincent Bolloré sta cavalcando come un buttero maremmano: si prende Telecom Italia, ha una solida posizione in Mediobanca testa a testa con Unicredit, un manager di fiducia al vertice delle Assicurazioni Generali (Philippe Donnet), un amico e compagno di avventure come Tarak Ben Ammar in alcuni snodi chiave della finanza. Intanto, altri campioni del made in Italy sono bottino di caccia per Bernard Arnault (Lvmh) e François Pinault (Kerling) a mano a mano che i sarti, i lanieri, i profumieri italiani scelgono il buen retiro. Ma anziché lagnarsi non è meglio andare a vedere come stanno andando gli affari passati in mani francesi? E’ di questi giorni una nuova tensione in Parmalat. Sono trascorsi quasi cinque anni da quando la Lactalis della famiglia Besnier (i re del formaggio) ha preso il controllo dell’azienda travolta da uno dei più grandi scandali finanziari internazionali. In Italia erano già ben insediati, visto che avevano raccolto dalla polvere Galbani, Invernizzi, Locatelli, Cademartori e Vallelata, accolti con sollievo anche dai sindacati. I vecchi blasoni infangati sono stati rimessi a nuovo e le aziende sono tornate a funzionare. Anche Parmalat è rifiorita. Il giro d’affari è salito da 4,5 a 6,4 miliardi, gli utili da 379 a 454 milioni, grazie alla ingente cassa lasciata dai risanatori italiani (un miliardo e mezzo a fine 2011) la nuova proprietà ha comprato aziende in giro per il mondo (Brasile, Messico, Australia). In Borsa non è andata benissimo, il titolo è fermo a due euro e mezzo, ma i soci hanno incassato 262 milioni, la maggior parte finita in Sofil, la cassaforte dei Besnier i quali posseggono l’87 per cento delle azioni. Il fondo Amber, l’azionista di minoranza più significativo, ha più volte manifestato il suo disagio di fronte a una presa assolutamente ferrea della famiglia di fromagers. Le tensioni hanno portato a diversi cambiamenti nel consiglio di amministrazione. La settimana scorsa si sono dimessi il capo azienda Yvon Guerin e due consiglieri espressione di Lactalis. Come mai? Si capirà forse il 29 aprile in sede di assemblea, però i Besnier vogliono assicurarsi un controllo ancor più ferreo e forse, come scrive MF/MilanoFinanza raccogliendo le voci di Borsa, togliere del tutto il titolo da Piazza Affari.

 

Buoni risultati, ma centralizzazione nel comando: è questo il modello francese che si ritrova in quasi tutte le aziende italiane, anche se con uomini diversi e in forme più o meno felpate. Prendiamo le banche. Cariparma che Crédit Agricole ha preso quando nel 2007 Intesa si è fusa con il Sanpaolo, può vantare il miglior rating, A3, attribuitole da Moody’s. Tornata all’utile nel 2014 insieme alla casa madre, ha aumentato il capitale. Per gestire le sofferenze sta studiando una sorta di “bad bank” insieme a Intesa, Banco Popolare, Mps, Ubi, in modo da bypassare i veti dell’Ue. La banca è gestita da due italiani, il presidente Ariberto Fassati che ha lavorato nel gruppo francese e il consigliere delegato Giampiero Maioli, parmigiano. Anche Bnp ha mantenuto in Bnl un vertice italiano a cominciare da Luigi Abete che siede sulla stessa poltrona dal 1998 all’ad Andrea Munari che ha sostituito Fabio Gallia passato alla Cassa depositi e prestiti.

 

La Edf, l’azienda elettrica francese che ha conquistato Edison nel 2001, dopo che Pier Luigi Bersani aveva aperto le porte, con una scalata che l’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato aveva tentato di bloccare, ha ormai i suoi uomini di punta al governo del primo gruppo energetico privato. Si tratta di Jean-Bernard Lévy, presidente e Marc Benayoun amministratore delegato. La stretta è avvenuta dal 2012 quando Edf ha acquisito il 99 per cento del capitale. L’obiettivo è trasformare Edison (il più antico produttore energetico in Italia, e il primo privato con 12 miliardi di ricavi) nel polo degli idrocarburi dell’intero gruppo.

 

L’integrazione verticale è un cardine della filosofia gestionale francese. Il settore del lusso non fa eccezione, anche se in apparenza si muove in senso diverso. Le due grandi conglomerate Lvmh e Kering sono dei sistemi solari. Al centro splendono i due patron, Arnault e Pinault, che guidano le finanze e le strategie. Ma i marchi sono come pianeti dotati di fattezze proprie. Se Gucci, Brioni, Bottega Veneta, Pomellato, Richard Ginori (controllate da Kering), perdessero le proprie specificità, verrebbero condannate al fallimento. Lo stesso vale per Bulgari, Loro Piana, Fendi (di Lvmh). Sarebbe un disastro per l’immagine e per la sostanza anche se venisse spezzato il legame che hanno con il territorio e la produzione nazionale se non in alcuni casi locale (è una caratteristica tipica del modello italiano).

 

Finora i due magnati francesi hanno rispettato questo peculiare rapporto con la storia e la geografia, croce e delizia dell’industria italica. Ma la competizione anglosassone (strutturata attorno all’outsourcing) da un lato e cinese dall’altro (perché anche la Cina cerca di spostarsi su una fascia almeno medio-alta), non garantiscono che possa durare in eterno.

 

La grande recessione ha salvato il lusso soprattutto grazie alla domanda asiatica e dei paesi in via di sviluppo. Oggi quegli sbocchi non sono più sicuri (certamente non come nello scorso decennio). Ma questo è un problema che si presenta anche ai produttori italiani, quelli che sono riusciti a resistere (da Ferragamo ad Armani, da Zegna a Della Valle tanto per fare alcuni nomi). La proprietà nazionale non mette al riparo dai mutamenti dell’economia mondiale, ciò vale anche per chi è riuscito a diventare globale, compresi i settori strategici. Per tutti, senza distinzione, vige la legge bronzea della concorrenza.

 

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