Marco Tronchetti Provera (foto LaPresse)

Inchiesta su un ricco di rango

La verità, vi prego, su Tronchetti Provera. Capitano o corsaro nero?

Salvatore Merlo

La famiglia Pirelli, la scalata milanese, il ruolo di Cuccia, l’azzardo Telecom, le scatole cinesi e l’ebbrezza mondana.

L’uomo che vendette la Pirelli ha divampato come una fiamma blasée in questo paese, e la sua immagine di aristocratico borghese, cauto ed elegante, ricco e bello malgrado l’età che lo imbianca, mima drammaticamente e correttamente quel fuoco: chi è Marco Tronchetti Provera, uno degli uomini più controversi d’Italia? Il segreto della sua forza, dicono, si racchiude in una formula gelidamente geometrica: rapidità, scaltrezza e resistenza. Per Cesare Romiti e Giovanni Bazoli, per Carlo De Benedetti e Roberto Colaninno, un gruppo di spettatori torvamente compatto intorno alle sue gesta, Tronchetti Provera è “il genero”, l’uomo che sposò Cecilia, la figlia di Leopoldo Pirelli, l’uomo che “spolpò” la Telecom, come disse Franco Bernabè, colui il quale in poco più di dieci anni ha ridotto l’impero industriale della Milano che con il Pirellone, il primo grattacielo d’Italia, scalava il cielo, a un modesto produttore di pneumatici di nicchia (garantendosi però, dal 2000 a oggi, oltre 290 milioni tra stock option e stipendi, quasi il doppio dei 155 milioni che aveva investito di persona per il controllo di Telecom). E insomma intorno a lui è tutto un festival del collo torto e del sopracciglio inarcato, zone oscure, spicchi tenebrosi, recessi sfumati che altri però non vedono, perché raccontano invece la storia dell’uomo che la Pirelli l’ha salvata dalle ultime e sfortunate decisioni del vecchio Leopoldo. E dunque per Luca di Montezemolo e Diego Della Valle, per Cesare Geronzi e Massimo Moratti, Tronchetti Provera è un industriale abile e riservato cui certe malinconie sono state sempre riscattate da una generosa e munifica vivacità (i finanziamenti alla Scala, e poi quel piccolo capolavoro che è ancora il calendario Pirelli). E insomma Tronchetti non è mai stato uno di quegli uomini per i quali la carne ha un gusto di sale e il pane è bagnato di amarezza, certo, ma ha tenuto a galla l’azienda indebitata dal vecchio Leopoldo, si è concentrato sugli pneumatici di alta gamma, con successo, seppe vendere bene dei pezzi d’azienda nel marasma dello stallo industriale italiano, ma fu sfortunato con la Telecom, che acquistò alla vigilia dell’11 settembre accollandosi un debito che nella crisi, e nell’incertezza di quei tempi oscuri, divenne per lui insostenibile e causa di un disastro forse inevitabile per chiunque.

 

Magro, la testa ricoperta di capelli d’argento sempre ben alta, la notevole statura, il volto dai lineamenti puliti e il naso sfrontato, appena ricurvo, Tronchetti Provera piaceva a Gianni Agnelli, che nel 1992 benedisse la sua presa del potere dentro la Pirelli, e che forse in quel ragazzo milanese (Agnelli era del 1921, Tronchetti è nato nel 1948) riconosceva qualcosa di se stesso, una sorta d’infedelissimo doppio meneghino, capace anche lui di parlare e di muoversi con garbo anche se privo di battuta pronta e tagliente, avvolto piuttosto da un pudore indecifrabile che gli ha sempre sigillato le labbra: mai una volgarità che si ricordi, con nessuno dei suoi tantissimi nemici, sempre smagliante e leggero a dispetto delle alterne fortune. Quando comprò la Telecom, nel 2000, il Financial Times lo incoronò come il nuovo Agnelli. E l’Avvocato ne sorrise, non senza accondiscendente simpatia.

 

[**Video_box_2**]E Tronchetti nel salotto buono è stato tutto: consigliere di amministrazione di Mediobanca, della Banca commerciale italiana, della Ras assicurazioni, dell’Università Bocconi, dell’Inter, poi vicepresidente di Confindustria, padrone di Telecom, con un ruolo fondamentale, attraverso Pirelli, nell’editoria di questo paese: dal 1997 al 2001 presidente del Sole 24 Ore, dal 2001 al 2006 si occupò dello sviluppo di La7 e dell’agenzia di stampa Apcom. E poi, ovviamente, il Corriere della Sera, di cui Tronchetti Provera è azionista tra i più influenti. Ma oggi la Fiat, che fu dell’Avvocato, si fa Fiat-Chrysler, americana eppure sempre italiana malgrado le tasse pagate a Londra, con la sua 500 ripescata, riverniciata e rivenduta con successo nel mondo, mentre la Pirelli fa ciao con la manina: il simbolo della Milano industriale venduto a ChemChina, un colosso controllato dal governo di Pechino, un’operazione finanziaria da oltre sette miliardi di euro. E quanti di questi profitti saranno reinvestiti in Italia? Chissà.

 

Vendere la Pirelli in qualche modo, per Tronchetti Provera, dev’essere come una discesa per la vertiginosa parete del tempo, fino a un passato quasi senza memoria, ai giorni in cui quell’azienda lui la ebbe dalle mani di Enrico Cuccia, che a Leopoldo Pirelli, secondo la versione più maliziosa della storia, la strappò come un tozzo di pane dalle mani di un bambino. E anche qui, chiaroscuri, interpretazioni, storie che raccontate da amici e nemici non coincidono: l’azienda fu scippata al vecchio Pirelli o invece il patriarca si fece da parte, come ha raccontato tante volte Giuseppe Turani? “Fallita disastrosamente la scalata alla Continental, Leopoldo, che era stato per tutta la vita prima di tutto un signore e un gentiluomo, capisce dopo l’avventura tedesca che il suo tempo è finito. Non può più rimanere alla testa di un gruppo industriale al quale ha causato (peraltro senza colpe) un danno economico così grande. E così se ne va (fra il 1992 e il 1995), lascia tutte le cariche del gruppo. Non protesta, non si lascia dietro una scia di rampogne o di veleni”. Secondo la versione più cattiva, invece, andò così: fallita la scalata alla Continental, che a Leopoldo era costata carissima, a poche ore da un previsto e necessario aumento di capitale che Mediobanca aveva garantito per coprire gli enormi debiti, Enrico Cuccia, il grande banchiere, al quale Tronchetti Provera si era nel frattempo molto legato – a lui e a Vincenzo Maranghi – perché curava i rapporti tra Pirelli e Mediobanca, telefonò a Leopoldo, con tono ultimativo: “Non garantiremo nessun aumento di capitale se non ti dimetti e nomini Tronchetti presidente”. E fu così che, secondo i maliziosi, Pirelli, un anziano e amabile gentiluomo che usava compiacersi di se stesso ricordando cosa fosse quel grattacielo, il Pirellone, che a Milano portava il suo cognome, ne ebbe un dispiacere. Aveva sofferto il dolore della sconfitta con signorile stoicismo, il suo sguardo si era fatto freddo, il suo umore delizioso a tratti era venuto meno. Mentre Tronchetti Provera, che aveva sposato in seconde nozze la bellissima Cecilia, figlia prediletta di Leopoldo, donna estroversa e “dalle gambe lunghe e nervose”, come scrisse Lina Sotis, s’impossessò dell’azienda.

 

L’ombra del patriarca e un sangue fortunato

 

E forse davvero Tronchetti tentava di divincolarsi dall’ombra del patriarca, senza scosse, ma con la subdola insistenza con cui un cane cerca di liberarsi del collare. Bocconiano di buona e ricca famiglia, ma non certo come i Pirelli, assaporava sempre di più il piacere del successo, delle cariche importanti ma sempre un passo dietro a Leopoldo, della bellezza e della giovane età, che per lui non erano soltanto l’ebbrezza e la confusione della giovinezza, ma una sorta di benessere, la sensazione di avere un sangue fortunato che scorre tranquillamente e allegramente nelle vene. Fatto sta che a quarantaquattro anni assume la guida operativa del gruppo. Inseritosi al vertice dell’azienda, dà il via a un ampio progetto di ristrutturazione delle diverse attività, realizzando un turnaround finanziario, industriale e gestionale (prese manager capaci come Carlo Buora) che porta al rilancio del gruppo Pirelli, celebrato dal Corriere della Sera, il 13 febbraio del 1994, con questo titolo: “Pirelli, i cinque segreti della rinascita. Il risanamento di un’azienda in grave crisi”. Poi nel 2005 fece un affarone dismettendo il business dei cavi, vendette i sistemi ottici della Pirelli alla americana Cisco per una cifra colossale: 1,3 miliardi di dollari. Puro ossigeno, anche se i maligni – e come sempre nella vita di Tronchetti a un chiaro corrisponde uno scuro – fanno notare che da quella vendita, cui fu costretto dai debiti per la scalata Telecom, nacque la Prysmian, un’azienda diventata nel corso degli anni un colosso mondiale da 8 miliardi di fatturato.

 

Dunque gli affari, un dio temibile e un destino che sembra iscritto nella sua carne, e poi le belle donne, che per lui sono state al tempo stesso il suo piacere, la sua pazzia e un lusso necessario, come la villa di Portofino, gli abiti di Caraceni e le scarpe su misura, la barca “Ikarus”, il giardino e la collezione di quadri. Un primo matrimonio che dura soltanto nove mesi, con Letizia Rittatore Vonwiller, autrice di un manuale evidentemente sperimentato in prima persona: “Come sposare un miliardario”. Poi dodici anni con Cecilia Pirelli, che sposerà solo dopo il divorzio dalla prima moglie e la nascita del terzo figlio. E dunque il secondo divorzio, lo scapolame, la libertà riconquistata, lo champagne e le avventure galanti, le corse in barca nel vento, e il denaro speso a piene mani: fino al 1997, quando conosce Afef, modella e donna di spettacolo tunisina, allegra e intelligente, lei che a Milano, nei salotti, viene chiamata ancora “l’araba felice”, come raccontò Laura Laurenzi. Si sposano nel 2001, a Portofino, in un momento decisivo nella vita di Tronchetti Provera. In quegli anni il denaro aveva ancora un corso talmente capriccioso, tempestoso, impetuoso, da spaventare quelli che vivevano sulle sue rive. E dunque l’adulazione, la ricchezza, la disponibilità economica, una certa spensieratezza spavalda, la sensazione di essere infine al sicuro e ormai quasi invulnerabile, persino la felicità famigliare, tutto questo spiega, forse, l’operazione Telecom, che fu il suo tentativo di proiettarsi definitivamente e per sempre, in proprio, nell’Olimpo del capitalismo.

 

[**Video_box_2**]L’operazione, che si concluse malissimo, con una perdita calcolata intorno ai 3 miliardi di euro, fu molto discussa dall’inizio – la scalata finanziata a debito – sino all’epilogo (gli scontri con il governo di Romano Prodi, le inchieste giudiziarie, e infine la vendita). Scriveva Eugenio Scalfari su Repubblica, a settembre del 2006: “Il punto debole, anzi debolissimo e patologico, non sta dentro Telecom Italia ma a monte, nella lunga catena societaria al vertice della quale troviamo la finanziaria personale di Tronchetti Provera il quale, da quel puntino lontano lontano, controlla la più grande azienda italiana con soltanto l’1 per cento di capitale, attraverso Pirelli e Olimpia. Anche queste società – che sono soltanto scatole finanziarie salvo un pallido residuo industriale nella Pirelli – sono fortemente indebitate senza tuttavia generare flussi e ricavi di ‘cash flow’… Si configura in tal modo una geometria non nuova nel capitalismo italiano, spinta in questo caso al suo limite estremo: il potere di comando che dal remoto puntino Tronchetti si irradia verso la base aziendale incatenandone le decisioni agli interessi dell’azionista di riferimento e il flusso di risorse finanziarie che quell’azionista confisca a proprio vantaggio depauperando l’azienda che le produce”. I giornalisti economici, come Giorgio Meletti, calcolarono che, quando scalò Telecom, Tronchetti impegnava 155 milioni di capitale personale, e gestiva 55,4 miliardi altrui. Eppure, con il senso di sicurezza che può provare un sonnambulo sul bordo di un tetto, lui proseguiva la partita, mentre il debito s’ingigantiva, prendeva forme mostruose, irrecuperabili: con le Torri gemelle che crollavano a New York, il mercato che si richiudeva su se stesso e sulle sue paure, e l’Italia che s’infiammava intorno a Telecom, in un cortocircuito di violentissimo conflitto fra Tronchetti e Prodi, in un clima plumbeo appesantito dagli scandali e dalle opacità, dalle rivelazioni a mezzo stampa, dai sospetti di Massimo D’Alema, che tra le righe accusava addirittura Tronchetti di spionaggio (accuse mai provate, e sempre smentite dalle indagini e dai processi). E insomma, Telecom doveva essere la sua Austerlitz, fu la sua Waterloo. Comprò le azioni di Emilio Gnutti mentre Roberto Colaninno era a caccia in Argentina, sembrò il colpo del secolo, ma ci rimise tre miliardi. Aveva un’azienda di cavi e pneumatici, la Pirelli, entrò nella telefonia e rimase con i soli pneumatici (dove ha fatto cose eccellenti, concentrandosi sull’alta gamma, sulle vetture tedesche, e su un modello “winter” vendutissimo).

 

Dopo Telecom ogni desiderio si è spento, e la poca vita affaristica si è affidata a esigui segnali. Adesso Tronchetti vende la Pirelli, per sette miliardi, la vende ai cinesi. Avanza spedito, con la sicurezza di una formica guidata dall’istinto. A settantaquattro anni resterà alla guida dell’azienda, l’ultima entità industriale che esisteva a Milano, che è la dispensa del paese, il centro decisionale, il bacino di alimentazione dove restano Armani, Prada, Tod’s, soltanto la moda e le scarpe. Chi è Marco Tronchetti Provera? Chissà. Agnelli, Pirelli, Olivetti, Falck, sono come figure irreali, lontane, quasi dissolte nella nebbia, ombre vane, ricordi e frasi retoriche: “Ah, quando c’era Pirelli!”… E pare quasi che rammentandoli, contendendoli alla palude del nulla, si possa fare quel poco che è consentito per l’effimera salvezza dei morti.

Di più su questi argomenti:
  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.